Auto e Cinema. Le suore in Bulli

Oggi pochi si ricordano de “Le motorizzate” film in bianco/nero del 1963 di Marino Girolami. E’ la classica opera semplice – si diceva allora “per tutti” – del cinema italiano anni Sessanta che trova la sua ripartizione espositiva in una serie di episodi affidati ad attori di livello che con la loro sola eccellente presenza scenica reggevano, talvolta, una trama/sceneggiatura esile, catturando al volo lo spettatore tipo nazionale.

Quindi non il cinefilo e il frequentatore di cineforum ma il fruitore del cinema della domenica da consumare magari nel pidocchietto di quartiere con la famiglia. Ci sarebbe da scrivere, e molto, su questa realtà (la tele c’era già ma l’andare al cinema era un’altra cosa, quasi un rito sociale) fatta di sale colme di umanità varia, compresi fidanzati che si baciavano nel complice buio senza badare alla pellicola, di fumo di sigarette (eh sì si poteva allora farlo!), dove all’ingresso, se vi era il pienone dentro, la cassiera esponeva il cartello “solo posti in piedi”.

“Le motorizzate” può essere considerato un simbolo su celluloide di questa stagione e pure riflesso di un’epoca, appunto quella del boom, dove anche le donne cominciavano a guidare in massa. Logico che l’industria cinematografica avesse annusato l’aria di questa svolta epocale e quindi agisse di conseguenza anche attraverso pellicole come questa.

Infatti “ Le motorizzate” si articola su cinque episodi che con toni e vicende diverse svolgono il tema auto e donne tutte sul filo della comicità talvolta di grana spessa ma mai volgare, più spesso allusiva.

Punto la mia attenzione solo su uno di questi “Carmelitane Sprint” per due motivi. Il primo, ovvio, perché le protagoniste sono due suore; il secondo perché il veicolo loro coprotagonista è inusitato per il cinema italiano: il Volkswagen Transporter denominato dai suoi tanti fan nel mondo, con affetto, “Bulli”

Ecco la storia. Giornata di elezioni politiche a Roma. Due suore, vestite come allora ancora usava tra le religiose, son a bordo del mezzo. Svolgono l’operazione di portare al seggio chi ha problemi di salute confidando che questa cortesia valga, come ricompensa da parte del trasportato, il voto per il proprio schieramento, ovvero la Democrazia Cristiana. Al volante una graziosa suorina interpretata da Alida Cappellini che si destreggia con brillantezza talvolta eccessiva tra le strade di una Roma estiva e quasi vuota. Accanto a lei una suora d’età, serena ma volitiva, interpretata dall’ottima Ave Ninchi. Il furgoncino promiscuo arriva davanti ad un portone. Un’anziana spinge la carrozzella del marito disabile. L’uomo, intabarrato come fosse inverno, è il mitico Carlo Pisacane, il “Capannelle” di quel capolavoro del cinema italiano che è “I soliti ignoti”.

Il meccanismo comico è pronto. La Ninchi e Capannelle, prova e testimonianza di una scuola di qualità di attori italiani – definiti in modo riduttivo come “caratteristi”- tutti nati, cresciuti e provenienti dal teatro, capaci di reggere la scena ovunque.

E, infatti, l’interno del Bulli diventa in breve un palcoscenico. Le riprese son ben fatte così come il montaggio. Alternano il dentro con il fuori scandito dalla guida nervosa della suorina. Il meccanismo elaborativo dell’episodio non è casuale: si basa su un sottogenere del cinema comico lo slapstik e, più precisamente, di una sua variante lo slow burn dove quel “brucia lentamente” sintetizza l’evolversi di una vicenda che parte dalla normalità che però salta per una serie infinita di piccoli atti fino a quando tutto esplode. Maestri inarrivabili di questo genere Stanlio ed Ollio perché vogliono apparire normali e desiderano che la realtà che li circonda lo sia ma alla fine sono travolti anche per loro colpa dagli eventi con risultati comici esilaranti. L’esempio più alto di questo genere (consiglio di rivederlo !) è quando il duo tenta di vendere un albero di natale a un buon, pare, ma non lo è, borghese americano.

Accade lo stesso ne le Carmelitane sprint. Capannelle è un vecchietto tignoso, verboso e saccente e ben presto si rivela non un accolito della DC ma un nostalgico fascista. Prende in giro la suorina al volante dicendole che la marcia migliore è sempre quella su Roma. La Ninchi ribatte meravigliandosi della sua fede politica aggiungendo che sua moglie è una donna di fede.

Capannelle ribatte, ghignando, che invece l’ha convinta a votare Movimento Sociale Italiano facendole credere che l’acronimo MSI sia quello di “Maria Santissima Immacolata”. Intanto la tecnica dello slow burn, detta anche “miccia lunga”, appunto continua a bruciare. La giovane suora prende male una curva e va a tamponare una 600: niente di grave. Dalla vettura scendono tre baldi giovani “romani de Roma” per discutere. Si scopre così che son tre attivisti del Partito Comunista che stanno assolvendo lo stesso impegno delle suore. E’ però curioso che le religiose dispongano di un bel mezzo spazioso e comodo come il Bulli (e le riprese di questo palcoscenico mobile permettono di far vedere bene nei dettagli l’arredamento interno del mezzo) e “ i comunisti” di una modesta 600 che con le sue due porte non è il massimo per far salire e star bene chi ha problemi di mobilità.

La miccia in breve si consuma. Ovvio che Capannelle cominci a litigare con i giovani per motivi politici. Poi tutto esplode. Uno dei tre giovani tenta di aggredire il vecchietto fascista. Ed allora la Ninchi che, sino allora, con ferma cristiana pazienza, aveva tentato di sedare gli animi, compreso quello della petulante suorina, perde la pazienza: si tira su le ampie maniche della tonaca scende dal Bulli e affronta il trio: lo stende in un battibaleno con abili mosse da judoka. Il terzetto rosso è a terra e si lamenta e l’episodio finisce li, proprio come in una comica.

Chiudo con alcune note sul Bulli. Il suo nome ufficiale e Volkswagen Transporter. Ma è stato molto di più di un autoveicolo commerciale. L’intuizione di realizzarlo nel 1947 fu di Ben Pon l’importatore olandese del Maggiolino. La propose alla Casa. L’idea fu accettata: era giusta, al passo coi tempi. La guerra era finita da due anni appena e tutta l’Europa aveva bisogno di mezzi capaci, spaziosi, affidabili ma soprattutto versatili: dovevano, infatti, portare cose e persone per lavoro e se si poteva per svago. Basato sulla meccanica del Maggiolino irrobustita per garantire in sicurezza la poliedricità d’uso, il mezzo vide la luce sul mercato nel marzo 1950. A muoverlo il classico motore 4 cilindri boxer VW raffreddato ad aria di 1131 cc che seguirà negli anni l’evoluzione tecnica del maggiolino fino ad arrivare alla soglia di cilindrata del litro e mezzo.

Il Transporter fu prodotto in ben cinque serie, l’ultima dal 2003, dal 1949. Il suo successo, oltre a quello del modello furgonato, fu sancito dalla versione promiscua denominata Samba Bus (pulmino bicolore ampiamente vetrato anche sul tetto) e Vestfalia, approntata con intelligenza come camper, proposte nei primi anni sessanta. Il Bulli diventò, infatti, sul finire di questo decennio la vettura mito della generazione dei figli dei fiori in Europa e negli USA, in particolare, in California. Il T2 Split del film, questo il nome ufficiale datogli dalla Casa, fu prodotto fino al 1967, nella bella cifra di oltre 1.700.000 mila unità e oggi è ancora ricercatissimo dai collezionisti perche oltre ad essere un mezzo di trasporto di un’epoca ne è diventato della stessa simbolo e icona.

Insomma si può affermare che “le vie” del Transporter durante la sua lunga carriera sono state – ricordando proprio le Carmelitane sprint de Le motorizzate – davvero “infinite”.

 

1 commento
  1. Autologia
    Autologia dice:

    Continua la serie di articoli di Paolo Vinai dedicati alle auto nel cinema con un racconto ogni domenica (…che sembra la giornata più adatta per il cinema)
    Questa settimana protagonista è il mitico pulmino Bulli della Volkswagen

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