Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie

Il 1968 è stato un anno di profonde mutazioni, riuscite o meno, e di grandi insegnamenti.

Ha insegnato alla massa come stuzzicare il potere e al potere come, nell’era moderna, controllare la massa.

In quell’anno l’azienda giapponese che rappresento progettava e costruiva veicoli elettrici; anche altri costruttori lo facevano. Perché?

Forse perché in quell’anno, nella tumultuosa scena politica americana, furono pronunciate queste parole:

“Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow-Jones, né i successi del paese sulla base del Prodotto Interno Lordo.

Il PIL comprende anche l’inquinamento dell’aria e la pubblicità delle sigarette, e le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine dei fine-settimana.

Il PIL mette nel conto le serrature speciali per le nostre porte di casa, e le prigioni per coloro che cercano di forzarle. Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai nostri bambini.

Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione o della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia o la solidità dei valori familiari, l’intelligenza del nostro dibattere o l’onestà dei nostri pubblici dipendenti. Non tiene conto né della giustizia nei nostri tribunali, né dell’equità nei rapporti fra di noi.

Il PIL non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio, né la nostra saggezza né la nostra conoscenza, né la nostra compassione né la devozione al nostro paese. Misura tutto, in breve, eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta.”

Questo estremista si chiamava Robert Kennedy.

Solo una pallottola poteva impedirgli di diventare presidente degli Stati Uniti d’America. E lo fece.

Cito queste parole perché, a un recente incontro Ambrosetti sulla “Blue Economy”, dove si evinceva che lo sviluppo di mobilità elettrica dipendeva da come affrontare i costi che questa induce, ho portato un esempio di calcolo.

Parafrasando Robert Kennedy (scusate l’ardire) non era un mero calcolo economico.

Ho mostrato infatti come, sostituendo il parco auto dei tassisti di Milano con vetture che emettono un terzo delle emissioni medie del parco auto nazionale, si riduceva drasticamente l’ammontare di CO2 che i cittadini respirano ogni giorno.

Non con veicoli elettrici, ma con veicoli ibridi di nuova generazione: con motori elettrici sempre in trazione.

La diminuzione d’inalazione di CO2 non genera profitti, non può – direttamente – essere conteggiata nel PIL.

Però aiuta una madre e un padre lavoratori a non dover assentarsi dal lavoro perché il loro bambino ha la tosse, evita di dover occupare un posto in fila dal pediatra di base, di comprare medicine, e tante altre cose.

Qui, secondo me, sta il concetto della “Blue Economy”.

Recentemente, a un convegno in Regione Lombardia sullo sviluppo della mobilità elettrica, dopo aver assistito alla presentazione dei tanti “progetti pilota” per costruire una colonnina di ricarica a Mantova o a Casalpusterlengo, alle illustrazioni del MISE su come il Piano Nazionale per le infrastrutture di ricarica elettrica sia il primo d’Europa (però non ho capito in quale classifica, se di compilazione o di esecuzione) agli interventi di costruttori di stazioni di ricarica e di progettisti di rigenerazione, ho finalmente avuto la parola.

Tre minuti, come per tutti gli altri rappresentanti di Case Costruttrici.

L’ho presa non per illustrare le qualità dei veicoli che la mia Azienda commercializza, ma per ricordare a tutti il grande assente, colui il quale dovrebbe comprare i veicoli elettrici o ibridi avanzati.

Perché non lo fa.

Perché non ho ancora avuto la certezza che un acquirente di auto mi darebbe 10 euro in più per una vettura che emette 10 g. di CO2/km. in meno.

Volevo dare una risposta a quel perché, e cioè a perché sono quasi quarant’anni che progettiamo veicoli elettrici per un cliente che non c’è.

Perché, anche se sappiamo che dobbiamo modificare la nostra mobilità, che il nostro pianeta non potrà reggere ancora per molto il consumo di carburanti fossili, che il PIL non rappresenta pienamente la nostra società, non sappiamo ancora quale via prendere.

L’unica cosa che sappiamo è che una via la dobbiamo trovare.

Non mi reputo così onnisciente da averla trovata, però mi guardo attorno. E un incentivo a portare il cliente verso veicoli meno inquinanti qualcuno l’ha trovato.

Non fraintendetemi; non voglio un’altra campagna di “eco incentivi”, per poi dover rispondere a un solerte funzionario del MISE che la mia Azienda, come tante altre, se li è accaparrati perché altrimenti, nell’ottica di chi li ha creati e che, credo, non abbia mai comprato un automobile, il cliente non li avrebbe mai cercati.

Porto invece l’esempio di mercati, come la Norvegia, dove veicoli elettrici dal costo superiore ai 90.000 Euro vendono 5000 unità, e di paesi dove la percentuale di mercato occupata dalla “mobilità elettrica” arriva al 20%.

Facciamo come loro: tassiamo le emissioni.

Credo che, per una volta, anche l’Agenzia delle Entrate non avrebbe niente da ridire.

E che, fra quelli che guidano un carrarmato in centro perché i 5 Euro dell’area C non intaccano il loro welfare, qualcuno penserebbe più oculatamente se assecondare l’ego o l’intelletto con la prossima vettura.

Chiaro, qualche petroliere si arrabbierà, farà pressioni, azioni di lobbying. Ne sono certo.

Ma sono altrettanto certo che il nipote di quel petroliere potrà vivere in un mondo migliore.

P.S.

Libertà di parola significa poter gridare “TEATRO!” in un incendio affollato. Abbie Hoffman

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