Il manager che ti insegnava a guardare al futuro

Ci sono uomini che se li incroci anche solo una volta nella vita, o poco più, e hai la fortuna di scambiarci qualche parola, sono capaci di lasciarti un segno indelebile.
Per me, giornalista di provincia piombato per caso nel mondo della stampa-motori, Sergio Marchionne è stato uno di questi, al pari di personaggi che hanno fatto la storia dell’auto e dell’automobilismo italiano come Enzo Ferrari, Gianni Agnelli, Sergio Pininfarina, Michael Schumacher e di giornalisti del calibro di Gino Rancati, Mario Poltronieri e Marcello Minerbi.
Delle volte che ho avuto la fortuna di incontrarlo e di attaccare bottone ne ricorderò per sempre tre.
La prima, quando, per caso, nel 1998 lo incontrai in Canada. Ero stato trascinato in una convention di italo-canadesi da Antonio Maglio, giornalista di razza approdato a Toronto, che avevo conosciuto durante una vacanza-stage al “Corriere Canadese” e che voleva coinvolgermi in un progetto da presentare a “La Repubblica” per costruire un network di giornali dedicato agli italiani all’estero. Con Marchionne parlammo a lungo proprio di questo progetto e lui era sorpreso che da giovane italiano con una carriera avviata in Italia (ero già al “Corriere dell’Umbria”) fossi coinvolto e, soprattutto, interessato a un’idea che poteva stravolgermi la vita.
“A parte pensionati, disoccupati e calciatori dal grande passato ma dal presente inglorioso – mi disse – lei è il primo italiano, per giunta giovane, con un lavoro stabile che trovo interessato a fare un salto nel buio e a tagliare le sue radici…”
Erano altri tempi. E nessuno di noi sapeva che ben presto, in Italia, le cose sarebbero cambiate.
“Bisogna saper guardare lontano per raggiungere grandi traguardi “, aggiunse. “E avere il coraggio di fare delle scelte, anche se queste nessun altro le farebbe. L’importante è farle con convinzione”.
Parole che oggi mi appaiono come una profezia di quello che sarebbe accaduto. E di quello che non sarebbe accaduto.
Lo incontrai di nuovo nel 2007 quando era già approdato in Fiat: informato da qualcuno, volle complimentarsi per il fatto che, alla presentazione internazionale della nuova Fiat 500 di luglio, ero stato il primo giornalista a uscire dallo stadio di Torino alla guida di una delle vetture messe a disposizione per i test. “Ho saputo che è stata una dura lotta con i suoi colleghi”, mi disse stringendomi la mano. “E, soprattutto, che ha battuto i tedeschi. Vedrà che anche noi siamo in grado di battere i tedeschi”. E si ricordò del primo incontro: “Ma noi ci siamo già incrociati…”
La stessa frase che ripeté qualche anno dopo alla presentazione del restyling di Fiat Freemont. Ricordarsi ancora di me, rimasto il microscopico giornalista di provincia di sempre, mi confermò la sua grande capacità mnemonica che era già diventata leggendaria. Ma anche le grandi fatiche che stava affrontando.
Lui era circondato dai giornalisti di mezzo mondo che lo pressavano sulle voci che circolavano in merito agli accordi con Chrysler. Io ero alle sue spalle, distante una decina di metri, e stavo assaggiando una tartina del buffet.
All’improvviso, fatta una dichiarazione tranquillizzante sul futuro degli stabilimenti Usa, si girò di scatto per liberarsi dall’assedio e mi colse col sorcio in bocca. Imbarazzato mi uscì solo una frase fantozziana, sbagliata ma osannante nella qualifica: “Presidente, sapremo poi tutto dalle agenzie…”
E lui: “Finalmente qualcuno che se ne frega di quello che dico. E, soprattutto, non mi costringe a dire solo quello che vuole sentire. Mi dica subito quali sono le tartine più buone che me ne mangio tre. E lo sa che mi ricorda quando ancora riuscivo a concedermi qualche pausa? Oggi, invece, al massimo dormo in aereo quando mi sposto tra Detroit e Torino. Lo faccio anche tre volte alla settimana…” Poi mi chiese come era andato a finire il progetto del network con i giornali per gli italiani all’estero. “Naufragato”, gli dissi. “E io sono rimasto qui in Italia anche se poi, comunque, mi fu fatta una proposta dal “Corriere Canadese”.
“Se è una scelta fatta perché le è mancato il coraggio, ha preferito il posto e lo stipendio sicuro – furono le sue parole – ha sbagliato. Se invece lo ha fatto perché ha sentito di avere l’intuizione che non sarebbe stata la strada giusta o perché ha scelto di mettere su famiglia e di pensare di più ai suoi cari, ha fatto bene. E, comunque, l’importante è che lo abbia fatto ragionando. E scegliendo la strada che la porterà all’obiettivo che pensa migliore per lei e per gli altri, se ci sono, che le sono vicini. Il coraggio è nulla senza un po’ di raziocinio”.
Non essendo stata una domanda non gli dissi mai le mie ragioni. Ma lo salutai con un “grazie”.

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