Per il Moro di Venezia tecnologia da Formula 1

L’Ospite di Autologia: Beppe Donazzan, giornalista.

Anno 1992, venticinque anni fa, l’avventura del Moro di Venezia.
Una lunga emozione, bella, intensa, inaspettata.
Un crescendo di aspettative, interesse e spettacolarità.
Un fenomeno clamoroso prodotto, allora, da una disciplina esclusiva e sconosciuta come la vela. Una febbre che si è moltiplicata e diffusa grazie al tam-tam televisivo.
Nei giorni della sfida con NewZealand, nella finale della Louis Vuitton Cup, il bompresso era la parola più usata. Invece dei gol di Van Basten la gente discuteva di questo arnese senza sapere che cosa fosse e a che cosa servisse. Si maledicevano i Kiwi per la scorrettezza quasi che avessero equipaggiato la loro barca con il turbo. Il Moro, improvvisamente, era diventato la Nazionale per la quale tifare. Poco importava conoscere la storia della Coppa America, la competizione più antica e prestigiosa.
C’era il Moro e basta. Perfino coloro che avevano visto il mare soltanto in cartolina si erano immedesimati nell’avvenimento: parlavano di strambate, rande, spinnaker quasi fossero reduci da Capo Horn.
Un’identificazione collettiva nei confronti del “guscio” tecnologico, pari alla Formula 1, realizzato nei cantieri Tencara di Marghera, impegnato in una sfida sconosciuta.
San Diego, California, nove ore di fuso orario di differenza, era diventata località fuori porta. Il Moro, nel decisivo duello con America3 del magnate americano Bill Koch, era sì uscito sconfitto, ma aveva suscitato ammirazione per organizzazione, preparazione e tecnologia.
Negli Stati Uniti quella barca rossa aveva saputo conquistare rispetto, stima, simpatia, trofei forse più importanti della stessa Coppa in palio.
(Come racconto nel mio libro “Il moro di Venezia e il sogno di Coppa America stampato da Edizioni Mare Verticale) Ho ancora negli occhi il momento della premiazione allo Yacht Club di San Diego. L’applauso più intenso, affettuoso, sincero, era andato proprio agli uomini del Moro. Gli sconfitti. Un singolare modo di presentare le armi da parte degli americani. Gli imbattibili.
“Siamo venuti qui, io italiano, Paul Cayard, americano, per mostrare la strada verso il nuovo mondo: senza confini e barriere”, disse al microfono Raul Gardini, il Doge.
Seguì un battimani che durò alcuni minuti. In quei giorni a San Diego la piccola Italia aveva fatto il lifting: non era solo il Paese della pizza e degli spaghetti ma anche Nazione moderna di tecnologia e ingegno.
Era l’Italia del Moro.
E Venezia non era soltanto identificata per la splendida città sull’acqua, per i palazzi sul Canal Grande, per le gondole, ma era vista come la città dalla quale era partita quella barca che aveva osato affrontare e mettere in difficoltà la più potente organizzazione velica del mondo.
Il Moro di Venezia, un sogno italiano.

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