A proposito di automobili, mobilia e architettura

Al Salone del Mobile, non si sa con quanta delizia degli addetti ai lavori, la presenza dell’industria automobilistica si è fatta più decisa con il 21° secolo: il ricordo di esperienze dirette si è associato a quello di un articolo apparso su un remoto (dieci anni fa!) numero di “Abitare”. A firma dell’architetto e docente Fabrizio Gallati, aveva suscitato all’epoca qualche piccola polemica, con quella sottolineatura un po’ perfida di come una presenza più nutrita non avesse per niente contribuito a chiarire una lunga vicenda di rapporti complessi: “o il pilastro è messo proprio lì, dove lo specchietto non lo inquadra, e scheggerà la vernice della fiancata, oppure le linee filanti della carrozzeria faranno sembrare statico e impacciato l’edificio che dovrebbe fare da sfondo alla vettura (…) Non sono stati molti coloro che hanno progettato sia architettura sia automobili (…) nei pochi casi dove questo è avvenuto sono rimasti disgiunti i linguaggi  espressivi utilizzati nei due casi. Al massimo è esistita una minima assonanza tra mobilio e automobili…”

Appunto: o qualcosa è avvenuto, nel frattempo? A scorrere l’elenco delle presenze automobilistiche nei “fuori salone”, a “testimonianza di attenzione verso il mondo dell’architettura e delle forme”, si incontrano anteprime di nuove auto o di concept all’insegna della ricerca stilistica ed ecologica, oppure variazioni sul tema del logo e personalizzazioni di modelli a cura di designers giovani o meno giovani, fino alla semplice associazione di auto ed eventi vari: le proposte che più sembrano rispondere alla nostra domanda sono ancora e soltanto i “design-talks” e la ricerca di un linguaggio almeno condiviso tra décor automobilistico ed abitativo.

La questione è comunque complicata. I rapporti tra “contenente “ e “contenuto”, nel caso dell’architettura industriale, in cui si collocherà l’industria automobilistica, sono già alle origini un mix di esigenze pratiche, di “paternalistica magniloquenza” (R.Raja- “Architettura: storia, significato e progetto”) e di tensioni – immediate!- tra l’idea di architettura dei committenti e quella degli architetti. “I motori  erano belve tremende, che generavano ansia per l’ignoto;  per placare questi nuovi demoni i più solleciti tra i primi industriali furono attenti ad adottare uno stile architettonico classico in linea con la tradizione, per la facciata pubblica delle loro fabbriche.” (G.Darley- “Fabbriche. Origini e sviluppo dell’architettura industriale”).

Il motore a vapore permetteva però di svincolarsi dalla dipendenza diretta da acqua e vento e di collocare l’impianto nelle vicinanze delle materie prime e dei canali di comunicazione e distribuzione. Le crescenti dimensioni delle macchine da lavoro richiedevano d’altronde nuovi e più vasti ambienti, più sicuri e in un futuro relativamente vicino illuminati dalla luce a gas. All’inizio del 19° secolo lo stile palladiano venne abbandonato per un ritorno alla funzionalità ed  alla solidità; la chiave di volta per ulteriori trasformazioni sarà il ferro, utilizzato a partire dalla metà del secolo anche per gli stessi strumenti di produzione, mentre tra la fine dell’Ottocento e gli Anni Dieci del ‘900 il cemento armato e la fabbrica fordista, con le sue linee di assemblaggio e i nuovi spazi che esse richiedono, compiono il passaggio al panorama industriale del secolo scorso. “La  natura specifica dell’organizzazione del processo industriale determina la pianta e la forma della costruzione” (R.Raja). Con ferro e cemento “sono possibili strutture portanti rivoluzionarie, mentre forma e struttura stessa dell’edificio tendono a diventare tutt’uno.” E lo stesso cantiere diviene – come la fabbrica – “un luogo in cui si montano pezzi prefabbricati prodotti in serie altrove, mentre l’edificio è ispirato alle logiche della sua destinazione, con grandi vetrate, linee nette e semplici  e la scomparsa di quella menzogna architettonica che sono gli archi”, così, almeno, i profeti del funzionalismo. “Dietro” ciò, ovviamente, la problematica del lavoro ripetitivo e disumanizzante, come raccontava Chaplin in “Tempi moderni”: ma ,”davanti”, il passaggio “alla fase neocapitalista di colloquio e confronto con le “belle arti” ed il design, sempre nell’ottica di recupero di produttività e vantaggio economico e sociale”. E’ ancora Raja, che nota come l’architetto venga interpellato ancora e solo per dare “dignità artistica” ad un impianto di per sé rigido.

E infatti, elettricità e veicoli a motore, simboli della nuova era, “vengono prodotti in edifici in acciaio e cemento armato  costruiti secondo gli ultimi ritrovati tecnici ma sepolti sotto rivestimenti di muratura classica e ornamenti convenzionali, recuperati  dall’architettura civile e dall’arte contemporanea , a scopo di decoro del tutto esteriore .”Insomma, la seconda rivoluzione industriale – e l’automobile – non riuscivano a produrre un’architettura che traducesse i loro nuovi valori estetici e dinamici.

E’ il punto che, all’inizio degli anni ’20, come sottolineava Gallati nel prosieguo dell’articolo, venne affrontato – e teorizzato in “Vers une architecture” del 1923 – da Le Corbusier, con le sue case chiamate, non casualmente, Citrohan, sottolineandone così la serialità e l’economicità, concetti ripresi dalla produzione automobilistica: “l’automobile è un soggetto dalla funzione semplice che ha imposto alla grande industria la necessità della standardizzazione (…) Le case sono macchine da abitare.” E sempre non a caso Le Corbusier riconobbe nel Lingotto, capolavoro del 1923 di Matte’ Trucco, un raro “modello di inclusione delle automobili nelle architetture: auto ed edificio non si intersecano (…) ma c’è proprio quello di cui l’automobile ha bisogno:  asfalto da mordere nella pista sopra al tetto.” (Gallati), tetto cui si arriva dalle due formidabili rampe elicoidali. L’idea del Lingotto – e degli impianti degli anni ’30 di Citroen e Renault  a Javel e Billancourt – è la stessa del ciclo produttivo integrato di Detroit. A Javel una grande vetrata che si apriva sulla sala di montaggio, con l’obiettivo di trasmettere tra l’altro i contenuti progressivi della produzione di serie, batteva in realtà anche una via parallela, quella della progettazione architettonica come parte del messaggio pubblicitario, che diventa così pubblicità permanente. Ed elemento di arredo urbano – tra l’altro indiretta filiazione della “città industriale” tra 19° e 20° secolo, all’epoca operazione di politica sociale e di immagine insieme, come Crespi d’Adda, ora patrimonio Unesco. Come é monumento nazionale, a Lione, la succursale Citroen costruita nel 1932 da Jacques Ravazè, capo del servizio di architettura creato a Javel cinque anni prima, con il compito di sovrintendere alla realizzazione dei nuovi edifici e di consigliare i  concessionari nei loro allestimenti, in un quadro il più possibile omogeneo. La succursale di Lione fu progettata con la collaborazione di un ingegnere, Bergerat, due architetti, Wybo e Lagrange, un artista Jean Prouvè, designer d’avanguardia ed esperto nella modellatura su scala industriale del ferro.

Nella seconda metà del ‘900 Gallati nota come il rapporto tra architettura e automobile si sia progressivamente indirizzato verso l’edificio celebrativo, museale, o evocativo come è stato il C42 Citroen, sugli Champs Elysées. Quanto all’impianto produttivo, mentre l’automazione e la robotizzazione modificano in parte gli spazi interni, è la problematica di emissioni, riciclaggio, collocazione nell’ambiente naturale o urbano, a dettare nuove linee. Ma va detto che già a partire dal secondo dopoguerra si era fatto largo un dialogo più stretto tra design automobilistico e di interni, con apporti reciproci in termini di linee e materiali, “con l’assimilazione nel design di forme aerodinamiche: tendenza che portò a privilegiare, negli Usa, le linee bombate degli elementi della cucina, create in omaggio alla carrozzerie delle automobili…”. A parte le cucine, un esempio particolarmente riuscito di questo dialogo fu la plancia della Ds (nella foto), che Flaminio Bertoni creò dopo lunga gestazione, alla ricerca di un progetto coerente con la linea esterna. Ne nacque un oggetto dalle linee curve e tese, in due colori inusuali, blu e prugna, lungo un metro e mezzo ma pesante meno di 750 grammi perché in nylon stampato in un solo pezzo (e in nylon sarebbe stata anche la corona del volante monorazza). Bertoni fu designer, pittore, scultore, inventore…e architetto, ma la vita professionale che lo ha reso celebre si era svolta quasi tutta nel mondo dell’automobile: va pur detto che architetti “puri” si misurarono con la progettazione automobilistica, dando vita a ipotesi rimaste tali, ma non prive di idee e suggerimenti raccolti e realizzati. Fu il caso, ancora, di Le Corbusier, con la sua “Voiture”(1930) – “veicolo minimalista per la massima funzionalità”- o prima ancora la Cantilever Car di Wright (1920) e negli anni ’50 il Bisiluro Racecar di Mollino e Taruffi e il “Diamante” di Gio Ponti. In anni più vicini e spesso proprio in occasione del Salone del Mobile, nella scia di Picabia, Duchamp e Léger, molti artisti sono stati affascinati dalle parti meccaniche o da singoli elementi di carrozzeria, realizzando installazioni di “anatomia dell’auto”…

Nell’insieme, sembra di poter dire che qualcosa si é mosso? Sommessamente, si potrebbe suggerire, per il prossimo Salone, uno spazio, un evento, un..chiamatelo e fatelo come vi pare, dedicato a rivisitare, meglio di quanto abbiamo fatto qui, i  temi passati in rassegna. Non si sa mai…

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