Il Recovery Fund e l’automotive con velocità diverse

Un albergo è un albergo ovunque, s’intende a parità di categoria, e il mare non è diverso da una località turistica all’altra.

Il Prado e la Cappella Sistina possono sperare di recuperare gli affezionati come il Louvre e il Moma.

I vini della Toscana e delle Langhe, anche col supporto di una buona gastronomia, potranno tenere testa a quelli della Francia e dei più lontani avversari della Napa Valley.

Tutto ciò farebbe pensare a una ripartenza postcovid (che si spera rapida) se non proprio con i contendenti appaiati, quanto meno con possibilità di molti di poter sfruttare le stesse opportunità di successo a parità di energie.

Ma quando si guarda all’industria manifatturiera la musica cambia perché essa comprende settori molto dissimili tra loro, per ciò che hanno alle spalle e per quanto dovranno affrontare in un futuro non lontano.

Tra questi settori l’industria dell’auto è quella che, apparentemente può entrare attraverso tante porte nella roccaforte degli aiuti europei, ma questo non deve far dimenticare che i suoi tempi non sono quelli del Recovery Fund e che di mezzo c’è anche la politica dei diversi paesi e, soprattutto il carattere planetario della partita.

Il più che centenario mestiere di costruire automobili è in costante evoluzione da diversi decenni e in questo suo divenire sono entrati sulla scena con gli anni sempre nuovi competitors, che ancora all’inizio della seconda metà del Novecento avevano un ruolo trascurabile o non esistevano proprio. Questo progressivo aumento dei contendenti, nonostante la crescita dei vecchi mercati e la comparsa di nuovi ha accentuato la competitività, imponendo in non pochi casi alleanze che un tempo era persino difficile immaginare e, soprattutto, evidenziando le diverse politiche dei paesi sul terreno dello sviluppo tecnologico del settore in chiave green.

Per dirla con un termine abusato quella sull’auto elettrica è diventata ormai la “madre di tutte le battaglie” tra grandi gruppi automobilistici. Su questo la ripartenza non è eguale per tutti perché ci sono paesi come l’Italia i cui ritardi non potranno essere compensati dal Recovery Fund in quanto si portano dietro il peso di scelte non fatte per tempo dalle aziende e dai governi.

Se in Italia le “vetture alla spina” sono appena un 7,9 per centro contro una media dell’oltre 16 dei major market come Francia, Germania, UK, Spagna, una ragione deve pur esserci. E va ricercata appunto nella inveterata tendenza delle aziende italiane – non solo quelle dell’auto – a non voler guardare oltre l’orizzonte mettendo mano al portafoglio per fare quegli investimenti che oltretutto assicurano un ritorno. Un vivere alla giornata peraltro colpevolmente incoraggiato dai governi che hanno preferito, in non pochi casi, intervenire a favore dell’auto con aiuti costosi e improduttivi, senza porsi concretamente il problema energetico ma parlandone tanto e spesso a sproposito.

Dopotutto che cosa ci si può aspettare da un paese che discute di sviluppo green, biciclette, piste ciclabili, monopattini, corsie preferenziali e altre diavolerie e fa finta di non accorgersi che su ogni litro di  benzina si paga un’accise per la guerra di Etiopia del 1935.

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