Il ricordo di Enzo Ferrari, scomparso 30 anni fa

Una vita sotto i riflettori, protagonista sempre e comunque. E poi l’addio in silenzio, in una calda giornata di agosto.

Era il 14, vigilia di Ferragosto, giornata dedicata al riposo assoluto.

Giusto 30 anni fa. Quella mattina Enzo Ferrari lasciava il mondo terreno e la sua storia diventava la leggenda di un uomo che, dalla passione per le auto, ne ha fatto un mito a livello mondiale. I funerali avvennero quasi di soppiatto, in silenzio, in contrasto con il rombo dei motori che lo avevano accompagnato per una vita. Eppure di Enzo Ferrari, 30 anni dopo, resta qualcosa di unico nel panorama mondiale. Un nome e un mito che sulle piste di F.1 raccoglie milioni di tifosi.

Una fabbrica che produce record e auto da sogno, con gente disposta ad aspettare anni pur di avere un modello esclusivo. Oggi, 30 anni dopo, cosa resta della Ferrari di Enzo Ferrari? Facile dire che è una realtà consolidata, un marchio fra i più famosi al mondo, che dopo la quotazione in borsa ha mostrato una capitalizzazione unica forse nel suo genere.

Della Ferrari di ieri, a Maranello, c’è rimasto solo l’ufficio e la casetta del Commendatore, come lo chiamavano tutti. I metodi industriali sono cambiati, la tecnologia la fa da padrone. Delle due mila o tre mila auto all’anno siamo passati a oltre 7500. I fatturati parlano chiaro. Ma la storia della Ferrari è una storia fatta di corse, agonismo, piloti e sfide. E proprio uno dei piloti più emblematici nella storia della Ferrari, Arturo Merzario, prova a raccontarlo 30 anni dopo.

“Difficile fare paragoni – dice il pilota comasco che a 75 anni calca ancora le piste mondiali – la Ferrari di oggi è altra cosa, di Enzo non c’è rimasto niente. I metodi di lavoro, il timore di chi a quel tempo lavorava per lui. Faccio solo un esempio: quando entrava nel capannone dove si costruivano le macchine, calava il silenzio. Era temuto, rispettato, venerato quasi. Ma incuteva timore davvero. Un suo sguardo, una sua osservazione, potevano decidere il destino di una persona. Era una azienda padronale nel vero senso della parola, eppure 30 anni fa, quando morì, era già una realtà industriale di un certo livello, eppure lui teneva tutto sotto controllo, con un pugno deciso che pochi manager hanno mai avuto”. Quindi se oggi resta un mito Ferrari è perché il commendatore ha saputo lasciare un segno unico…”No, e non voglio farne una provocazione. Se la Ferrari di oggi è rimasta tale ed anzi è cresciuta come mito nel mondo, lo si deve a chi ha saputo raccoglierne il testimone. Ovvero io dò i meriti a Luca Cordero Di Montezemolo. Si può dire tutto e il contrario di tutto su Luca, ma la Ferrari di fine anni 80 e primi anni 90 era sull’orlo del collasso. I dirigenti Fiat subentrati nel periodo di interregno hanno fatto solo danni. Montezemolo ha imposto la sua figura, ha spinto sullo sport, che è la linfa della Ferrari e poi, con l’epopea Schumacher, ha costruito le fondamenta di un mito unico nel mondo”.

Montezemolo come Enzo Ferrari, potrebbe sembrare un po’ troppo secondo alcuni…”No, perché la Ferrari, per quanto grande, è una azienda che ha bisogno della mano ferma di una persona sola. Dopo Montezemolo ci stava riuscendo Sergio Marchionne, un altro manager di polso. Purtroppo è scomparso prima e, non me ne vogliano i ferraristi, temo che i prossimi due o tre anni saranno difficili. E’ una azienda con un DNA ben preciso, improntato da Enzo Ferrari, proseguito da Montezemolo e poi da Marchionne. Ci vogliono persone di questo genere per far continuare il mito. Se finisce nelle mani di qualche manager di stampo FCA, finisce male. La passione, la storia e il DNA non lo improvvisi a scuola, ci vuole polso e capacità”.

Lei ha corso per Ferrari ed è l’unico che dava del tu al commendatore, come mai? “Un po’ di incoscienza giovanile, io avevo 24 anni, lui era già sui 70. Ero abituato a correre per Abarth, che era sempre il signor Abarth ma avevamo un atteggiamento molto semplice. Per questo ero abituato a comportarmi così. Infatti entravo nell’ufficio del commendatore fumando la sigaretta quando nessuno lo faceva. Mi ricordo che ero a Imola, primavera del 1969, mi arrivò la telefonata di Enzo Ferrari. Gli dissi che avevo da fare con Abarth e ci saremmo sentiti a settembre. Cosa che feci puntualmente. Entrai con l’amico Marco Crovella, che mi accompagnava, vidi un cancello verde aperto ed entrai parcheggiando la macchina vicino all’ingresso. Mi assalirono due custodi, con male parole e volevano arrestarmi.

Io risposi di non rompermi le balle perché mi aspettava Enzo Ferrari e non sapevo dove fosse. Lui mi incontrò e mi venne spontaneo dargli del tu. Corsi la stagione 1970 con le 512 prototipo, la 712 Can Am con la quale vinsi delle gare, le GT, la Daytona, il cui secondo esemplare, blu metallizzato, fuori dagli schemi Ferrari tradizionali di rosso, giallo o roba simile, era la mia vettura personale. L’accordo fu presto fatto”. Poi però decise di prendere Niki Lauda al posto suo…”Sì, fu una sua decisione su consiglio di Clay Regazzoni. Mi arrabbiai, ma poi ero anche in pista a Fiorano a provare la mia F.1 perché il vecchio, così lo chiamavamo fra di noi, mi concedeva la pista e molti aiuti e in fondo siamo sempre andati d’accordo. Chissà, mi vedeva sfrontato ma non in modo arrogante, ero proprio così al naturale e a lui piaceva la gente vera, mica quelli falsi, li scopriva subito”. La grandezza di Ferrari manager, tutto merito suo? “Nella gestione della fabbrica è stato aiutato dai capitali messi da Barilla, Crepaldi, Chinetti, da Mimmo Dei e da Gioacchino Vari. La sua intelligenza fu quella che se intascava 100, 60 li investiva ancora nella fabbrica, il resto lo risparmiava.

Mica come altri che avevano già speso 110 prima di intascarne 100. E’ stato un grande manager sotto questo aspetto. Poi l’intelligenza, la passione per le corse, e l’atteggiamento familiare, hanno fatto il resto…”. Atteggiamento familiare? in che senso? “Nel senso che quando la signora Laura, la moglie, veniva nel capannone e trovava una vite per terra cominciava a sbraitare e a urlare contro i meccanici, dicendo che erano la rovina del marito, che era colpa loro per come andavano le cose. Cioè bisognava tenere tutto pulito, in ordine, senza sbavature e quando arrivava lei o il commendatore, calava il silenzio, la gente tremava al pensiero di cosa potesse dirti o uno o l’altro.

Ma è stata anche questa la sua grandezza. Dopo 30 anni non so cosa sia rimasto, di sicuro la Ferrari ha bisogno di un manager che oltre ai numeri della azienda, tenga conto di un altro fattore importante: il cuore e la passione. Senza questi la Ferrari non ha più ragione di esistere”.

 

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