MERCATO – Così il cimitero dell’auto diventa il parco giochi per gli stranieri
Anch’io sogno un pianeta pulito. Anch’io, soprattutto dopo aver testato decine di auto elettriche ed aver provato il gusto della coppia massima già a partire da zero giri, vorrei poter rinunciare per sempre a un’auto con motore tradizionale.
Ma vivo in Italia. E se mi guardo attorno, mi rendo conto che, se domattina tutti dovessimo passare in un battibaleno all’auto elettrica, rischieremmo di rimanere a piedi. Forse anche al buio. Se non al freddo più gelido o al caldo più infernale.
Poi c’è un altro problema. Grave. Le auto nuove costano sempre di più. Risultato?
Chi appena cinque anni fa si comprava una fiammante e prestigiosa berlina, oggi fatica perfino a permutarla con una citycar di seconda mano. E non parliamo dei giovanissimi: i neopatentati più fortunati arrivano a guidare un’Ami o un’Ape pagate con i debiti che si è dovuto sobbarcare papà o nonno. Gli altri l’auto non la sognano nemmeno più. Come la moto, d’altronde.
La verità? La verità è che per la conversione tecnologica totale non siamo pronti. Non lo siamo oggi, non lo saremo domani. E nemmeno dopodomani. Forse – ma solo se si comincia a correre alla bersagliera – tra qualche decennio. Chissà… E non è un problema solo italiano. È europeo. Drammaticamente europeo.
In più, tra regole certe e regole incerte, tra promesse, rinvii, dietrofront e accelerazioni cieche, siamo in balìa di un vortice che sta tirando giù, nell’abisso, un settore produttivo che, fino a ieri, era trainante per l’economia e per il mondo del lavoro.
Non deve sorprendere, quindi, la presa di posizione congiunta – e coraggiosa – di Luca De Meo, numero uno di Renault, e John Elkann, presidente di Stellantis.
Altro che guida autonoma, hanno fatto notare: qui in Europa l’unica cosa che va da sola è la follia normativa dell’Unione.
Altro che auto intelligenti: gli unici ad aver perso il controllo del volante sembrano proprio coloro che dovrebbero guidare la politica industriale del continente.
De Meo ed Elkann l’hanno detto chiaro e tondo nell’intervista concessa a Le Figaro: “È in gioco il destino dell’industria automobilistica europea”. Ma, signori, diciamolo: il destino è già segnato. E non serve nemmeno un chip di intelligenza artificiale per capirlo.
L’auto europea sta morendo. Non di vecchiaia, ma di burocrazia, ideologia e di un ambientalismo giusto ma miope, che confonde l’utopia con la strategia.
Il risultato? Auto sempre più complesse, più pesanti, più costose.
In una sola parola: troppo. Troppo tutto, tranne che accessibili. Perché oggi, comprare un’auto nuova, per una famiglia media e anche per tanti single, è diventato davvero un lusso. Comprarla del segmento premium (quello una volta appannaggio della cosiddetta classe media) un miraggio che nemmeno le aziende per i propri dirigenti, ma solo pochi superfortunati possono trasformare in realtà. E non per colpa delle case automobilistiche, ma per colpa delle norme.
Quelle norme ferree – uniche al mondo – che pretendono di far entrare una Panda in un vestito da limousine.
E se non ci riesce? Pazienza: multa, divieto, sanzione.
Ma attenzione, qui non si parla solo di tasche vuote. Si parla di sovranità industriale, di sopravvivenza economica.
Perché mentre a Bruxelles si discute se un’auto debba solo emettere o anche respirare, la Cina si prende tutto: mercato, volumi e clienti. Con vetture elettriche low cost e zero sensi di colpa ambientale.
L’Europa, da culla dell’automobile, rischia di diventare il cimitero dell’industria e il parco giochi dei concorrenti esteri.
Nel frattempo, il parco circolante invecchia, e sempre più auto restano in strada fino a diventare fossili su quattro ruote.
Perché? Perché sostituirle costa troppo. Perché le citycar sono state massacrate da norme scritte con il compasso dei suv. Perché Bruxelles si ostina a credere che l’unica salvezza sia un’auto nuova, elettrica e costruita secondo standard da laboratorio Nasa. E se il costo sfora? Amen.
Elkann e De Meo chiedono solo una cosa: una svolta. Meno dogmi, più pragmatismo.
Non vogliono aiuti, non vogliono sconti. Vogliono che l’Europa smetta di tagliarsi le gomme da sola. Che capisca che decarbonizzare non vuol dire desertificare la produzione. Che salvare il pianeta non può voler dire uccidere il mercato. Che per essere competitivi servono politiche industriali vere, come quelle che fanno gli Stati Uniti. Come fa la Cina. E non solo regolamenti europei su quanti angeli possono ballare sul cofano di un’utilitaria.
Nel frattempo, l’italiano – ma ormai anche l’europeo medio – resta fermo. Non in coda, ma nella trappola dell’usato. Col motore che arranca, l’assicurazione che galoppa e i prezzi dei carburanti che salgono e scendono ma, in media, viaggiano sempre verso l’alto.
E se gli chiedi perché non cambia macchina, ti guarda negli occhi e risponde, con la brutalità disarmante della realtà: “Perché non me la posso permettere”. E così, inseguendo l’utopia – esclusivamente europea – di un mondo subito più pulito, dove siamo arrivati? A un punto in cui gli industriali europei non riescono più a produrre e gli europei non riescono più a comprare. A meno che non si rivolgano a veicoli che arrivano da Paesi lontani, dove per rispettare le nostre regole continueranno a inquinare come prima. Anzi, probabilmente di più.
Cari commissari europei: se l’unico futuro che ci offrite è fatto di auto inaccessibili e regole impossibili, è tempo di dirlo chiaramente: non state salvando il pianeta. Ci state rottamando l’Europa.
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