7 domande (immaginarie) a Georges Simenon sulle strade d’America

Nell’ottobre 1945 Simenon sbarca a New York ansioso di lasciarsi alle spalle le turbolenze degli anni di guerra. Con la moglie Tigy e il figlio Marc si stabilisce in Canada ma è agli Stati Uniti che guarda. E, per conoscere meglio il Paese dove comincerà una una nuova vita, parte al volante di una Chevrolet per un viaggio di 5mila chilometri, che dal Maine lo porterà fino a Sarasota, sul Golfo del Messico. Qui lo abbiamo incontrato, e intervistato.

1. Iniziamo dalle auto, con che auto ha fatto il suo coast to coast?

Sono due le auto di cui devo parlare… La prima è una Oldsmobile con il cambio automatico, con dentro mia moglie e l’istitutrice di mio figlio.

La seconda, una più modesta Chevrolet, con dentro la mia segretaria, mio figlio di 7 anni, ed io.

Le due auto naturalmente sono state comprate al mercato nero. Tutte le auto, o quasi, sia in Canada che negli Stati Uniti, si comprano al mercato nero.

Una buona macchina di seconda mano, vale in teoria circa mille dollari. Vi danno una ricevuta per questa somma e voi in realtà ne versate 2mila.

I pagamenti sottobanco non sono una prerogativa francese, a quanto pare.

Quindi ho pagato una Chevrolet di tre anni circa 200mila franchi e una Oldsmobile otto cilindri 250mila.

A bordo c’è la radio ed è accesa tutto il giorno, ovunque.

Good morning, spero che abbiate trascorso una buona nottata, non dimenticate che sono le 7.30 ed è l’ora del breakfast”.

2. Prime impressioni di guida. Prime sensazioni…

In America c’è una macchina ogni 100 metri. In entrambi i sensi si procede incolonnati.

Per cui, dopo un po’, cominciate a sentirvi frastornati dal ronzio dei motori.

Per fortuna in genere si viaggia a velocità ridotta.

Gli americani amano le macchine potenti, ma in media circolano a 40 miglia ovvero 65-70 km all’ora.

Anzi, per essere più esatti, gli americani o vanno piano, e allora vuol dire che sono sobri. O vanno a razzo, e allora significa che hanno bevuto.

Alla prima stazione di servizio troviamo tre o quattro pompe l’una a fianco all’altra. Diversi i tipi di carburante.

Senza neanche chiedervelo, vi riempiono il serbatoio dell’acqua, vi controllano il livello dell’olio e vi puliscono i vetri con un grazioso vaporizzatore.

Nell’elegante casupola di legno lì dietro troverete oltre ai WC, Coca-Cola, Ice-cream, tavolette di cioccolato alle noci e tutta una serie di caramelle che, nonostante le diverse etichette, hanno sempre lo stesso sapore di dentifricio.

Un americano si ferma più volentieri in un posto a caso sulla strada, davanti a un chioschetto dove vendono hot dog e abbondanti porzioni di spaghetti. Senza neppure scendere dalla macchina.

Basta un colpo di clacson e subito il cameriere porta un vassoio che si attacca allo sportello, un pasto che può essere consumato in tre o quattro minuti accompagnato da un bicchiere di acqua fresca.

3. Ci parli di una strada americana… la numero 1!

Siamo sulla Route 1 che va dalla cittadina di Calais, nel nord del Maine, fino a Miami. Forse succederà come con quei fiumi che alla fonte sembrano insignificanti e poi diventano maestosi lungo il percorso.

In ogni caso per ora la Route 1 assomiglia in tutto e per tutto a una delle nostre peggiori strade provinciali, non più larga di quelle. Incavata. Piena di buche. Con il manto scrostato un po’ dappertutto…

Qui tra Boston e New York è molto cambiata ed è diventata una magnifica strada a quattro o a sei corsie, a seconda dei punti.

L’asfalto è perfetto, liscio come il ghiaccio.

Curve incroci e bivi sono scrupolosamente segnalati.

Quanto al frastuono, basta moltiplicare per sei quello che vi ho descritto in precedenza perché anche il traffico aumenta esponenzialmente.

Quindi non vi parlerò del paesaggio. Perché non l’ho visto e non lo vedrò. Quando hai una macchina davanti, una dietro, due a sinistra nel tuo stesso senso di marcia e altre tre in senso contrario, quando intorno è tutto un rombare, suonare il clacson, superare, rallentare, accelerare e in più tutte le radio sono accese contemporaneamente, è meglio non avere l’animo troppo bucolico.

È destino che questa benedetta Route 1 mi costringa a ricredermi in continuazione. Grazie al Parkway sono entrato a New York guidando sul velluto.

Uscire è più difficile? Ho sbagliato io a un certo punto, a non attraversare un ponte che ho visto troppo tardi sulla destra?

Via, voglio essere sincero!

Il ponte l’ho visto in tempo, ma era così impressionante, sospeso nel cielo a un’altezza vertiginosa, come la rete dei trapezisti che si esibiscono sotto la cupola del circo, che mi sono convinto di avere buone ragioni per tirare dritto.

Tutte quelle macchine, nonostante le regole che io avevo sempre cercato di osservare scrupolosamente, si muovono a 50 o 60 miglia all’ora, si sorpassano, si incrociano, scompaiono a sinistra a destra, lungo rampe che portano chissà dove.

Qui, lo confesso con la massima franchezza: l’America fa paura.

Il polso ha preso a battermi più rapidamente, al ritmo delle migliaia di motori che avevo intorno.

Mi dicevo che sarebbe bastato distrarsi per una frazione di secondo…

Ancora pioggia e, a perdita d’occhio, ciminiere gigantesche, canali, terreni incolti, putrelle e scorie, un mondo da incubo che la nostra strada sovrastava, quella strada che non era una strada, che sembrava separata dalla terra, che sospesa in aria, era qualcosa di artificiale e di mostruoso.

Non saprei dire quante miglia abbia percorso in quel modo.

Le tempie mi pulsavano con la stessa cadenza del tergicristallo e mi faceva male la schiena a forza di chinarmi per riuscire a intravedere la carreggiata attraverso il parabrezza deformante.

4. E le autostrade?

Da Boston in poi vedevo la strada farsi via via più larga, ma avevo anche dovuto constatare con una certa inquietudine che a ogni miglio diventava più infernale, letteralmente invasa di macchine frenetiche, sicché alla fine guidavo come in un sogno, o piuttosto in un incubo, seguendo il flusso spostandomi a sinistra o a destra appena scorgevo un varco in quella massa informe in movimento.

Ero ancora in grado di distinguere quei semafori rossi che ti ordinavano perentoriamente di fermarti o le frecce segnaletiche?

Procedevo spedito fra migliaia di altre macchine che andavano spedite intorno a me e mi rendevo conto che, se avessi avuto la malaugurata idea di rallentare, sarei stato travolto da una colonna di auto.

Adesso capirete perché alla fine mi sono arreso e, appena ho visto un cartello che indicava lo svincolo per il “Parkway”, mi ci sono precipitato.

Un Parkway è un’autostrada con dei prati sui due lati e al centro: ogni tanto si passa davanti a una specie di gabbiotto.

Una mano si tende nella vostra direzione e voi le mettete nel palmo una moneta da dieci cent. Non credo che siano per i poveri ma piuttosto per la manutenzione del Parkway.

5. Un ricordo delle strade del Sud.

È una sensazione rara e deliziosa per chi viaggia arrivare in un Paese e trovarlo identico a come lo aveva sognato.

Dov’è cominciato il sud, in quale punto preciso del nostro viaggio ho avvertito questo benessere paragonabile a quello di un bagno tiepido e profumato? Non lo so con esattezza.

Alla pompa di benzina non c’era un bianco ma un nero, più avanti un altro nero, con in testa un cappello di feltro grigio, avanzava a bordo strada su un cavallo cortaldo.

Gli uomini del Sud non sono solo ospitali e gentili, sono cortesi. Mettono, nelle relazioni con i loro simili, quel qualcosa di impercettibile e affascinante che rende tanto preziosa la vita.

Intanto siamo arrivati in Florida e, dopo aver visto il cotone sostituirsi alle piantagioni di tabacco, lo vediamo cedere il posto alla canna da zucchero, agli aranci, ai pompelmi, ai limoni e ai banani.

Lungo la strada è tutto un susseguirsi di pesanti rami di aranci sovraccarichi di frutti quasi purpurei.

Proprio qui, a Daytona Beach, dove le macchine possono correre liberamente sulla spiaggia, il maggiore Campbell viene periodicamente a battere i record di velocità in auto.

6. Un aneddoto, un ricordo…

Una sera arrivo a Monterey, cittadina costiera della California. Stanco per aver guidato per circa 800 chilometri, lascio l’auto accanto al marciapiede senza accorgermi che in quel punto ci sono le strisce gialle, il che significa che le macchine private non possono sostare.

Quando torno trovo un foglio sotto il tergicristallo. Una multa? Non esattamente.

Il documento stampato in sostanza dice: “Lei è straniero in questa città e le diamo il benvenuto sperando che si trovi bene qui da noi. Le raccomandiamo in particolare di visitare (segue l’elenco delle località turistiche). Le segnaliamo però che è vietato sostare nel posto in cui si trova e che, se la cosa dovesse ripetersi, saremo costretti a multarla”.

È firmato dal capo della polizia.

Tutto qua.

7. E dietro la curva?

Al calare del buio, in una curva mi scoppia una gomma della macchina. Dicono che le gomme sintetiche, le uniche che è possibile trovare qui, siano eccellenti.

Hanno un solo difetto: non si bucano, scoppiano.

Il crick non funziona bene. Mentre cambiamo la ruota le auto ci sfiorano e, quando ripartiamo, è notte fonda e siamo abbagliati dalla fila di macchine che procede in senso opposto.

Sono talmente distrutto dalla stanchezza che mi fermo davanti a una casa illuminata per chiedere informazioni. Miracolo, non dobbiamo andare oltre.

Signor Simenon, i suoi ricordi di viaggio sono molto interessanti, grazie per aver condiviso con noi queste sue strade d’America.

NdA – Le risposte sono tratte da “L’America in automobile” di Georges Simenon, Adelphi Editore.

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