SCENARIO – Un’Europa green e competitiva, tra sogni e realismo
La UE deve conciliare la transizione ecologica con il rilancio industriale. Il protezionismo rischia di essere un ostacolo, mentre la collaborazione con i produttori cinesi potrebbe offrire una via più pragmatica per restare competitivi
L’Europa sogna un futuro green senza compromettere la propria industria, ma la realtà si rivela ben più complessa. Il rapporto Draghi solleva un quesito cruciale: è possibile conciliare la transizione ecologica con il rilancio del settore industriale? I casi dell’auto elettrica e del fotovoltaico dimostrano che il dilemma è tutt’altro che semplice da risolvere.
Ad analizzare nel dettaglio questi temi su Telos è stato Dominique Finon, direttore di ricerca emerito presso il CNRS, ricercatore associato Ponts ParisTech e CNRS.
Il protezionismo europeo: un’arma a doppio taglio?
Finon afferma che, allarmata dal raddoppio delle importazioni di veicoli elettrici dalla Cina, alla fine del 2023 la Commissione europea ha avviato una serie di indagini antidumping per valutare i sussidi pubblici ricevuti dai produttori cinesi. Obiettivo, introdurre dazi doganali compensativi e proteggere l’industria locale. Le misure in discussione includono standard ambientali per l’accesso ai sussidi all’acquisto, obblighi di contenuto locale (fino al 40% entro il 2030) e quote di importazione.
Tuttavia, questi strumenti rischiano di ostacolare la transizione ecologica aumentando i costi dei prodotti green. L’Europa, dunque, si trova davanti a un bivio: adottare un approccio pragmatico o seguire la strada, decisamente più radicale, degli Stati Uniti?
Due strategie opposte
Oltreoceano, l’Inflation Reduction Act (IRA) ha imposto dazi del 100% su veicoli elettrici e batterie cinesi, oltre al 50% su celle e pannelli solari, finanziando con questi introiti la costruzione di gigafactory. Una strategia aggressiva, volta a tagliare fuori la concorrenza cinese a favore di una produzione nazionale.
L’Europa, al contrario, preferisce un approccio di derisking, ossia la riduzione della dipendenza dalla Cina senza spezzare i legami commerciali. Ciò significa diversificare i fornitori, monitorare gli investimenti strategici e imporre dazi doganali mirati per compensare i sussidi ricevuti dalle aziende cinesi. Il tutto nel rispetto delle regole dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), un vincolo che limita fortemente la sua libertà d’azione.
Il sogno irraggiungibile del fotovoltaico europeo
Nel settore solare, il divario con la Cina appare ormai insormontabile. Se nel 2010 l’Europa deteneva il 30% della produzione globale di pannelli fotovoltaici, oggi la sua presenza è marginale. I pannelli cinesi costano la metà rispetto a quelli europei, grazie a un’industria perfettamente integrata e a una politica industriale di lungo termine.
Dal 2021, l’UE sta tentando di ricostruire una filiera solare con ingenti sussidi e la creazione di nuove gigafactory. Tuttavia, anche nelle condizioni ideali, il costo di produzione europeo resterebbe superiore del 25-35% rispetto a quello cinese. Con una simile forbice, qualsiasi tassa doganale difficilmente cambierebbe lo scenario.
Il dilemma dei dazi per le auto elettriche
Nel settore automobilistico, i produttori cinesi hanno saputo costruire un vantaggio competitivo grazie a un’efficiente catena di fornitura e a costi produttivi inferiori del 25-40% rispetto ai concorrenti europei. Modelli come l’MG4 di SAIC o il Dolphin di BYD costano fino a 10 mila euro in meno rispetto, per esempio, alla Renault Mégane E-Tech, rendendo l’offerta cinese irresistibile per la classe media europea.
L’aumento dei dazi proposto dalla Commissione potrebbe riequilibrare la competizione, ma con effetti limitati: i produttori cinesi applicano margini elevati in Europa, e un’eventuale tassa non basterebbe a ridurre il divario di prezzo. Al contrario, potrebbe ostacolare l’accesso a veicoli elettrici economici, rallentando la transizione.
Quale compromesso sarebbe possibile?
Secondo Finon, invece di un muro protezionistico si potrebbe esplorare una collaborazione più stretta con i produttori cinesi. Il rapporto Draghi suggerisce di incentivare gli investimenti diretti in Europa attraverso joint venture e impianti di assemblaggio. Un modello simile ha già funzionato con i produttori giapponesi negli anni Ottanta e potrebbe essere applicato alle auto elettriche e alle batterie.
Questa strategia consentirebbe di mantenere un equilibrio tra competitività industriale e accesso alle tecnologie più avanzate, evitando di ostacolare la transizione ecologica con misure protezionistiche inefficaci.
Realismo o illusione
Reindustrializzare l’Europa e ridurre la dipendenza dalla Cina sono obiettivi condivisibili, ma il recupero del divario nelle tecnologie green richiederebbe investimenti enormi e tempistiche incompatibili con la transizione al net-zero entro il 2050. Il vero nodo della questione è la mancanza di una chiara politica industriale europea, come sottolineato più volte dal rapporto Draghi.
Se l’Europa vuole davvero un futuro sostenibile e competitivo, forse è ora di smettere di rincorrere la Cina e iniziare a giocare le proprie carte con maggiore pragmatismo. Anche perché, come si dice di solito, se non puoi batterli, almeno prova a fare affari con loro!
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