L’auto in Italia? Sta parcheggiata. E pure male
Mentre il resto dell’Europa sembra accelerare, il mercato dell’auto italiano si arena.
I dati di luglio 2025 parlano chiaro con un calo del 5,11% di immatricolazioni rispetto allo stesso mese del 2024, e un bilancio da gennaio a luglio che registra una contrazione del 3,75%.
Un rallentamento che si sta trasformando più in un’inchiodata piuttosto che a un rallentamento.
Secondo le proiezioni basate sull’andamento dei primi sette mesi, l’anno potrebbe chiudersi con circa 1.456.070 immatricolazioni, il che significa un bel -6,6% sul 2024 e, ancor più inquietante, un -24% rispetto al 2019, l’ultimo anno “normale” pre-pandemia. Un tonfo che fa ancora più rumore se paragonato al calo del 19,1% registrato nello stesso periodo nel resto dell’Unione Europea.
Il problema, a detta del Centro Studi Promotor, non è solo italiano. L’intera UE soffre, ma l’Italia soffre di più. Perché? La risposta ha quattro ruote e una spina: la transizione energetica. L’Europa ha scelto di puntare tutto sull’elettrico con una determinazione definita “talebana” dallo stesso presidente del CSP, Gian Primo Quagliano. Mentre il resto del mondo – USA, Cina, India – affronta la transizione con pragmatismo e gradualità, Bruxelles impone una rivoluzione culturale e tecnologica che il nostro mercato, ancora largamente legato alle motorizzazioni tradizionali, fatica a digerire.
E mentre il mondo torna ai livelli pre-Covid (con addirittura un +7,5% di immatricolazioni rispetto al 2019), qui da noi il motore gira al minimo.
Non bastano le analisi macro. Per toccare con mano il malessere del settore basta parlare con chi le auto prova a venderle. Secondo l’ultima indagine congiunturale del Centro Studi Promotor, a luglio solo il 4% dei concessionari ha dichiarato un buon livello di ordini, il 14% ha parlato di normalità, mentre un pesantissimo 82% lamenta un mercato stagnante o in ritirata.
E le prospettive a tre-quattro mesi sono pochi entusiasmi: solo il 7% prevede una ripresa, il 49% si aspetta un calo ulteriore.
Molti osservatori avevano riposto speranze nel recente rinnovo della governance europea: un possibile cambio di passo sulle politiche per la mobilità, una virata verso la neutralità tecnologica, un allentamento del dogma elettrico. Ma la montagna ha partorito un topolino. E se Bruxelles non cambia rotta, i costruttori rischiano di finire fuori strada, e con loro anche le reti distributive, già messe a dura prova da margini erosi e investimenti obbligati in tecnologie poco richieste dal pubblico.
Il paradosso è tutto qui: si chiede al mercato di accelerare su un binario che però non ha ancora rotaie.
I consumatori esitano, le aziende arrancano, e l’auto – simbolo per decenni del dinamismo italiano – oggi sembra intrappolata tra normative avveniristiche e una realtà economica che guarda più ai rincari dell’RC auto che all’autonomia delle batterie.
Forse è tempo che ci si ricordi che per fare vera transizione non basta premere un interruttore. Serve una strada ben asfaltata, segnalata e, possibilmente, condivisa da chi quella strada dovrà percorrerla. Perché senza ascoltare chi guida davvero ogni giorno, il rischio è che la mobilità resti un progetto da scrivania. E che l’unico motore che gira sia quello della frustrazione.
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