Automobili e scandali. Quando i costruttori barano o fanno i furbi

Dalla Ford Pinto al dieselgate e gli airbag Takata: prima del caso dei test sui gas effettuati su scimmie e uomini, una lunga storia di difetti nascosti e conseguenze drammatiche

Dalle Ford Pinto che prendevano fuoco all’improvviso, fino alle scimmie usate come cavie per testare gli effetti delle emissioni
nocive
. Passando per il “dieselgate”, ovvero la manipolazione illecita sulle centraline di scarico di 11 milioni di vetture vendute dal Gruppo tedesco in tutto il mondo per nascondere la loro potenzialità inquinante. Una lunga scia di scandali ha costellato la storia dell’industria dell’automobile, dove la negligenza o la mancanza di scrupoli del management dei costruttori ha avuto conseguenze drammatiche. Il tutto aggravato spesso dall’inefficacia di un’azione di controllo e prevenzione da parte dei governi nazionali, l’attenzione dei quali nei confronti dell’automobile è stata sempre condizionata dagli scrupoli messi in campo quando era necessario sanzionare o frenare un settore che ha storicamente garantito milioni di posti di lavoro.

Il gas e le scimmie

Quella di dieci macachi chiusi per quattro ore in una stanza di un laboratorio di Albuquerque a guardare cartoni animati e respirare i gas di scarico di un Volkswagen Beetle e di un vecchio pick-up della Ford è, fino ad oggi, la scena più grottesca della vicenda del dieselgate. È stato il New York Times a tirarla fuori, venerdì scorso, riaprendo così quel vaso di Pandora che è lo scandalo delle emissioni truccate dei motori diesel. Nel mirino ci sono le attività dell’Eugt, organizzazione creata nel 2007 dalle case automobilistiche tedesche Volkswagen, Daimler e Bmw assieme al gigante della componentistica Bosch, per finanziare ricerche che dessero validità scientifica alla difesa dei motori diesel rispetto ai loro effetti sull’ambiente e suelle persone. Lo studio sulle scimmie condotto nel 2014 dal Lovelace Respiratory Research Institute di Albuquerque, nello stato americano del New Mexico – doveva dimostrare quanti progressi avessero fatto i motori diesel in quindici anni mettendo a confronto le emissioni di un Ford del 1999 con un Volkswagen Beetle del 2014. I ricercatori americani non sono riusciti ad arrivare a conclusioni scientificamente presentabili e quindi non hanno mai pubblicato lo studio.

I test (non pericolosi) sugli uomini

Dopo le rivelazioni del New York Times, domenica il tedesco Stuttgarter Zeintung ha gonfiato il caso dell’Eugt: con i soldi
dell’organizzazione finanziata dalle case automobilistiche, ha scritto il quotidiano di Stoccarda, all’ospedale universitario di Aquisgrana sono stati sperimentati gli effetti dei gas di scarico sugli esseri umani. In realtà c’è molto sensazionalismo spinto in questa denuncia. Lo studio finanziato dall’Eugt condotto ad Aquisgrana infatti non riguardava le emissioni dei motori ma la salubrità degli ambienti di lavoro, ed è quindi completamente diverso da quello dei macachi di Albuquerque. Come spiegato nella pubblicazioni dei risultati della ricerca, condotta tra il 2013 e il 2014 e pubblicata nel 2016, venticinque persone sane sono state esposte per tre ore a livelli diversi di diossido di azoto (che è una delle sostanze presenti negli scarichi dei motori) ma con dosi di esposizione inferiori ai limiti di leggi e a quelle che si trovano normalmente all’interno delle fabbriche tedesca. Il test non ha comunque mostrato effetti significativi sui corpi delle “cavie”.

L’auto assassina

Volkswagen dunque, insieme a Daimler e BMW – torna al centro delle accuse per gli esperimenti sui gas di scarico, mentre è ancora alle prese con i richiami, le cause giudiziarie e le ipotesi di rimborso anche per i clienti europei, dopo aver pagato le conseguenze della truffa scoperta nel settembre del 2015 con 15 miliardi di risarcimenti negli Stati Uniti e un danno d’immagine enorme. Ma il “dieselgate” è stata una manipolazione da poco in confronto al difetto nascosto dall’americana Ford nel 1971 sulla Pinto, auto economica dell’epoca che superò le 320.000 unità vendute soltanto nel primo anno di messa sul mercato. Gli sfortunati guidatori che si ritrovavano tamponati in mezzo al traffico non erano a conoscenza del difetto al tubo di alimentazione che mandava il veicolo in fiamme. Un “problema tecnico” che avrebbe provocato almeno 180 morti (ma alcuni parlano anche di 900) e che era dovuto alla posizione del serbatoio, mal progettato. Una situazione ben nota ai dirigenti della Ford, che però decisero di ignorarla poiché il costo di riprogettazione e correzione dell’errore era di gran lunga superiore rispetto al costo dei rimborsi giudiziari versati alle vittime di questo difetto.

Gli air-bag difettosi di Takata

Non soltanto i fabbricanti di auto, ma anche quelli di accessori sono stati al centro delle polemiche: Takata, produttore di airbag giapponese che controllava il 20% del mercato mondiale, è responsabile della fabbricazione di milioni di pezzi non a norma, montati sulle vetture dei 10 marchi maggiori a livello mondiale. La scoperta del problema nel 2014 ha provocato il richiamo di
oltre 50 milioni di automobili nel mondo a causa dei cuscinetti difettosi che, a causa di un gonfiaggio troppo violento, potevano scaraventare verso l’automobilista schegge di metallo. Secondo le autorità americane, sarebbero 11 le morti riconducibili a questo difetto. Dallo scoppio dello scandalo, l’azienda ha perso il 95% del suo valore prima di dichiarare il fallimento. Takata ha 46 mila dipendenti in 56 stabilimenti in 20 Paesi, con un fatturato di 663 miliardi di yen nel 2017, per il 90% realizzato all’estero. I debiti della società ora ammontano a oltre mille miliardi di yen, l’equivalente di 8 miliardi di euro, che includono i costi sostenuti dai produttori auto, fra cui Toyota e Honda, per gli airbag difettosi. Si è trattato della maggiore insolvenza mai registrata da una società nipponica.

Il “cartello” tedesco

Ancora marchi tedeschi nel mirino pochi mesi fa, quando il settimanale tedesco Der Spiegel ha puntato il dito contro l’industria automobilistica dei tre grandi gruppi BMW, Daimler e Volkswagen, affermando che potrebbe esistere un cartello fra queste aziende, introdotto con l’obiettivo di condividere decisioni strategiche e tecnologiche. In apparenza potrebbe sembrare un accordo innocuo, ma l’inchiesta ancora in corso sta verificando se si tratti di un metodo per aggirare le norme antitrust che vietano assolutamente queste intese volte a gestire il mercato, dettando prezzi e modalità, e tenendo in una posizione di minoranza gli altri costruttori e fornitori.

Un futuro più pulito

Tutti sporchi, brutti e cattivi dunque i costruttori? È indubbio che l’automobile abbia spesso “barato” ma , soprattutto in tema di emissioni, è altrettanto vero che abbia prestato il fianco ad accuse esagerate e a volte infondate. Come è innegabile che l’onda lunga del “dieselgate” abbia travolto tutti segnando però una rivoluzione per il mondo dei trasporti. Dallo scoppio dello scandalo
i test sono stati adeguati alla realtà e le norme ambientali sono state inasprite, sancendo il progressivo addio ai motori diesel nei segmenti più bassi, dove gli ingenti costi di adeguamento non rendono economicamente più sostenibile la produzione di vetture a gasolio e spingendo tutti i marchi verso l’elettrificazione spinta di molti modelli in gamma o verso la ricerca di altre alimentazioni “pulite” malgrado il mercato e le scelte di chi acquista auto non giustificassero questa svolta. Uno sforzo mostruoso, e pagato a caro prezzo: per “lavarsi la coscienza”, ma anche per continuare ad esistere. (avvenire.it)

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