Europa e l’auto del futuro, tre strategie per tornare a correre
L’industria automobilistica europea affronta una crisi profonda tra calo delle vendite, sfide tecnologiche e pressioni protezionistiche. Serve un ripensamento strategico e un forte intervento pubblico. Solo con innovazione, apertura alla concorrenza globale e investimenti infrastrutturali potrà rilanciarsi e guidare la transizione verso una mobilità sostenibile e competitiva
L’industria automobilistica europea, un tempo fiore all’occhiello dell’ingegno e dell’economia del Vecchio Continente, oggi scricchiola sotto il peso di una crisi che è tecnologica, culturale e politica insieme. I numeri parlano chiaro: i cinque grandi costruttori del continente – Volkswagen, Stellantis, Mercedes-Benz, BMW e Renault – hanno oggi una capitalizzazione complessiva inferiore a un quarto di quella di Tesla. Eppure, insieme vendono ogni anno 25 milioni di veicoli, un terzo del mercato globale.
Sembra un paradosso ma non lo è. Come sottolinea Francesco Grillo (Academic Fellow alla Bocconi e membro del think tank Vision) in un articolo pubblicato su The Conversation, ciò che è andato in crisi è il modello stesso su cui si è fondata per un secolo l’industria dell’automobile: un bene privato, costoso, sottoutilizzato, inefficiente per definizione. Basti pensare che un’auto resta inutilizzata per il 95% del tempo e viaggia in media con 1,2 passeggeri. Nel frattempo, la transizione ecologica spinge verso motorizzazioni elettriche, più efficienti e pulite, ma le infrastrutture europee stentano a tenere il passo.
A questa situazione già precaria si aggiunge ora l’annuncio di dazi del 25% sulle auto importate negli Stati Uniti da parte dell’ex presidente Donald Trump: una mazzata per gruppi come Volkswagen, che esporta due terzi della propria produzione al di fuori dell’Europa occidentale.
Eppure, una via d’uscita esiste. E secondo l’autore del servizio su The Conversation passa da tre strategie chiare.
Innanzitutto occorre accogliere la concorrenza, non respingerla. Il primo paradosso da superare è quello del protezionismo. Grillo propone un approccio opposto: attrarre i costruttori cinesi – come BYD, ormai più avanti di Tesla in termini di fatturato e innovazione – affinché producano sempre di più in Europa. Sarebbe un modo per aumentare la competizione, stimolare la ricerca e, soprattutto, riportare valore industriale all’interno dei confini europei.
Non si tratta solo di quote di mercato, ma di capacità tecnologica: BYD ha già sviluppato un sistema di ricarica capace di offrire 400 km di autonomia in soli cinque minuti. Bloccare questi attori significa isolarsi, non proteggersi.
La seconda strategia è vendere esperienze, non solo automobili. Si tratta di un vero cambio di èparadigma perché non si può più pensare all’auto come semplice oggetto da vendere una tantum. Servizi di mobilità, noleggio, guida autonoma e connettività devono diventare parte integrante dell’offerta. Proprio come Ferrari – oggi più capitalizzata di Stellantis – l’identità del marchio, la storia e il simbolismo possono diventare asset centrali.
Così come Kodak ha reinventato se stessa nella fotografia digitale, anche i costruttori europei devono sapersi trasformare: non basta innovare la tecnologia, bisogna ripensare il significato dell’automobile nella vita quotidiana.
E infine, lo Stato deve tornare protagonista: fattore non meno importante degli altri, serve un deciso ritorno dell’intervento pubblico. Non si parla di sussidi a pioggia o di nostalgie da “IRI dell’automobile”, bensì di investimenti in infrastrutture. Reti di ricarica, corsie dedicate, snodi digitali: senza queste basi materiali, l’auto del futuro non può esistere.
Un secolo fa, le città europee furono riconfigurate per accogliere le Fiat Topolino che uscivano dalle linee di Mirafiori. Oggi serve la stessa visione per accompagnare la transizione verso la mobilità elettrica e autonoma. La Cina l’ha capito prima: l’innovazione non arriva nel vuoto, ha bisogno di essere coltivata.
I dazi americani sono un colpo duro, ma potrebbero anche rivelarsi un’opportunità. Così come l’Europa seppe ricostruirsi dopo la guerra con una combinazione di visione industriale e pragmatismo politico – basti pensare alla sinergia tra lo Stato francese e Renault, o tra l’Italia e la Fiat degli anni Sessanta – oggi serve un nuovo “spirito europeo” che sappia guardare avanti.
Non è solo in gioco il futuro dell’automobile, ma quello di un intero modello economico e culturale. E forse anche l’idea stessa di progresso.
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