Il paradosso della mobilità tra record green e picchi di emissioni

In un articolo di Enzo Di Giulio — economista ambientale e membro del Comitato Scientifico di ENERGIA — ci si confronta con un’amara e lucida verità: la transizione energetica è in corso, ma i numeri raccontano una storia molto più ambigua di quanto si sperasse. Il recente report Ember, che Di Giulio commenta, dipinge un mondo elettrico che diventa più “verde” per kilowattora, ma più inquinante nel complesso.

“Più si decarbonizza, più le emissioni crescono” scrive Di Giulio. A prima vista sembra un’affermazione assurda, eppure è il cuore della contraddizione. L’energia solare, che nel 2024 ha visto un’espansione record (+29%) per il ventesimo anno consecutivo, rappresenta la punta di diamante di una rivoluzione in corso. Tuttavia, la crescita vertiginosa della domanda elettrica globale — aumentata del 4% nell’ultimo anno — costringe ancora a ricorrere alle fonti fossili per colmare il divario.

Le fonti low carbon (incluso il nucleare) coprono ormai il 40,9% del mix globale, ma il restante 60% resta saldamente in mano alle fonti fossili. Un dato che, come sottolinea dall’articolo, smentisce l’idea che la crescita delle rinnovabili basti, di per sé, a vincere la battaglia climatica.

Il dato forse più spiazzante riguarda il mondo della mobilità elettrica, simbolo globale della transizione verde. Di Giulio non fa sconti: “Al momento, il decollo dello stock di auto elettriche cinesi non è affatto sinonimo di decarbonizzazione, semmai l’opposto”. La Cina, dove si concentra circa un terzo della domanda elettrica mondiale, continua a produrre energia con un’intensità carbonica ben superiore alla media: 560 grammi di CO₂ per kilowattora, contro i 30 della Francia.

Ciò significa che ogni chilometro percorso da un’auto elettrica alimentata da una rete fortemente fossile può risultare meno virtuoso di quanto si pensi. Il rischio è che la mobilità “zero emissioni” lo sia solo allo scarico, non nell’intero ciclo di vita energetico.

Un altro elemento messo in evidenza con preoccupazione è il peso crescente dei data center. Secondo la IEA, questi colossi digitali consumeranno entro il 2030 più energia di quanta ne consuma oggi l’intero Giappone. Una rivoluzione silenziosa che minaccia di spezzare il tradizionale legame tra crescita dei servizi e diminuzione dei consumi energetici. Se questa tendenza dovesse consolidarsi, avverte Di Giulio, saremmo di fronte a una “negazione della forma parabolica dell’intensità energetica”, ovvero alla fine dell’idea che progresso e risparmio energetico possano camminare insieme.

Il cambiamento climatico alimenta la domanda elettrica — basti pensare al crescente uso di condizionatori durante le ondate di calore — e questa maggiore domanda, se non soddisfatta da fonti pulite, accresce ulteriormente le emissioni. Di Giulio riassume con un’amara ironia: “Cresce il cambiamento climatico, crescono i consumi elettrici, crescono le emissioni: amen”.

Il punto centrale dell’articolo è forse questo: la transizione non è una sostituzione, ma un’aggiunta. Le rinnovabili si sommano alle fossili, senza scalzarle. Il “vecchio” resta ben piantato nel terreno. Questo scenario impone un cambio di paradigma: investire non solo nelle nuove tecnologie green, ma anche nella decarbonizzazione delle fonti esistenti. Perché aspettare che le rinnovabili coprano tutta la domanda potrebbe non essere solo lento: potrebbe essere fatale.

Questa analisi ci costringe a rivedere i fondamenti su cui poggia l’attuale narrazione sulla mobilità elettrica. Non basta cambiare il tipo di motore o il colore della fonte energetica: serve una visione di sistema, che consideri dove e come l’energia è prodotta. La mobilità elettrica, in assenza di una rete realmente decarbonizzata, rischia di trasformarsi in una gigantesca operazione di greenwashing.

Senza una decisa accelerazione nella dismissione delle fonti fossili e un’infrastruttura energetica davvero sostenibile, la transizione rischia di diventare una corsa sul tapis roulant: tanta fatica, ma fermi sul posto.

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