(più di) Sette domande a Maurizio Puppo
“Sette domande” compie fra poco dieci anni e ci piace celebrarlo con questa intervista, che è più di una intervista.
Tutti abbiamo una relazione con l’auto fin da bambini, e storie da raccontare, e questo Sette domande ne è la dimostrazione puntuale.
Quando a un certo punto dei nostri quasi dieci anni di strada, il Direttore propose come simbolo della rubrica un lettino dello psicanalista, sorrisi e pensai: “bello, ma forse fin tanto.”
Oggi mi devo ricredere, perché in effetti in questo Sette domande c’è un che di psicoanalitico tanto si mette a nudo Maurizio Puppo in queste colte, serie ed esilaranti- a tratti fantozziane- risposte.
E dietro la curva questa volta c’è Fernando Pessoa, con una citazione speciale e scultorea come una epigrafe.
“Maurizio Puppo è nato a Genova nel 1965 e vive (e lavora, non essendo rentier) a Parigi dal 2001.
Si è laureato in Lettere, ha scritto per gli editori Fratelli Frilli e Newton Compton, scrive per la rivista «on-line» Altritaliani, ha due figlie italo-parigine.
Di macchine non sa proprio nulla, «e sottolineo nulla», diceva Franca Valeri”.
Ecco a voi l’uomo dalle 6 automobili, non una di più.
1-La tua prima auto
La mia prima automobile fu una FIAT 126 “Black”.
Nera, lucida.
In basso c’era una specie di striscia colorata.
Odorava di plastica.
La 126 era la naturale evoluzione sociale, antropologica della 500.
Come quest’ultima era piccola, “utilitaria”, poco costosa, ma già più ambiziosetta.
Perfetta per una classe operaia che cominciava a nutrire, al posto dei sogni di rivoluzione, velleità piccolo-borghesi, modeste ambizioni.
Oggi naturalmente della 126 si è perso il ricordo, mentre la vecchia 500, al contrario, è stata recuperata e riproposta come macchina chic, oggetto di collezione, modernariato.
Come accaduto per la Trabant della Germania Est.
La moderna borghesia disprezza le piccole ambizioni, un po’ cafonesche, della classe operaia, e invece “adora” (parola molto di moda) tutto quello che un tempo era riservato ai poveri e li contraddistingueva come tali: ad esempio i cibi popolari e le macchine da pochi soldi.
Nella versione per i ricchi i cibi popolari sono diventati “autentici”, così come le auto da poco sono divenute “iconiche”.
Noi poveri, insomma, senza farlo apposta anticipavamo i gusti dei ricchi.
Eravamo “trendy” senza saperlo.
Mica male.
2-La tua strada del cuore
Ovviamente dovrei scegliere strade con un sapore di esotismo.
Tipo la Route 66 di Kerouac.
Invece la mia preferenza va a una strada a due passi da dove sono cresciuto, che risale il corso di un rigagnolo, il Branega, nell’estremo ponente genovese.
E si perde poi nel nulla della campagna.
Le case, all’inizio fitte fitte, si fanno progressivamente più rare, come nella Petite promenade du poète, una meravigliosa poesia di Dino Campana.
Si risale l’Appennino.
Il mare resta alle spalle ed è presto dimenticato.
Delle tumultuose passioni qui per miracolo tace la guerra, dice Montale.
Lungo la strada, proprio accanto a un punto in cui si può parcheggiare l’automobile senza timore di dare fastidio agli altri, a fianco del torrente, c’è un laghetto, con una cascata.
Lì c’è una lapide, con una scritta un po’ a pezzi: Gianni 10.1.1977. Ho visto le menti migliori della mia generazione.
Un ragazzo morto di droga, così ho sempre creduto di capire.
Qualche volta c’erano dei fiori.
La citazione di Howl di Ginsberg mi emozionava molto.
Ne ho parlato anni fa in un libro sul mio rapporto con il calcio, Bandiere blucerchiate.
Nel laghetto accanto si faceva il bagno.
Io cercavo di portarci le ragazze.
Sognavo di vederle spogliarsi proprio lì, fare il bagno nude nell’acqua spesso gelida del laghetto, nel silenzio della campagna.
Il sogno si è poi talvolta confuso con la realtà.
Ora è difficile, forse inutile distinguerli.
3-La tua Genova e la tua Parigi automobilisticamente parlando: differenze, similitudini, modi di guidare …
La Genova in cui sono cresciuto era un imbuto di macchine, una scatola di rancore (l’espressione è di Luciano Bianciardi, che però la riferiva a Milano).
Le persone, al volante, diventavano dei mostri.
I maschi consideravano l’automobile un prolungamento del proprio apparato genitale, e la guida un continuo esame di virilità.
Anche le donne però non scherzavano.
Si odiava il conducente della macchina che ci precedeva, perché andava troppo piano.
O perché esitava a partire quando il semaforo diventava verde, facendoci perdere secondi preziosi (per cosa, non si sa).
Si odiava il conducente della macchina dietro di noi, che osava avvicinarsi troppo, mettendo in dubbio l’efficacia virile della nostra guida.
Poi, come in ogni realtà pervasa da un insensato localismo, nessuna esitazione era permessa: il conducente doveva conoscere esattamente ogni via, ogni senso unico, ogni scorciatoia, pena l’irrisione : “ma che fai, non sai che non si passa da qui a quest’ora?
Non sai che bisogna fare l’altra strada? Ma dove vivi?”
C’era e forse ancora c’è una dittatura della maggioranza automunita, una maggioranza aggressiva e violenta che si sente minacciata, assediata dalle minoranze: i timidi pedoni, i rari ciclisti, gli autisti compassati che non sono animati da una fretta indiavolata.
Al volante, la gente si sentiva forte, spavalda, realizzata, aggressiva.
“Ma cosa fa quello lì? Ma non è possibile. Aspetta, ora gli facciamo un bello scherzetto”.
E via con la manovra arrischiata.
Non appena messo piede a terra, poi gli autisti ridivenivano quello che erano.
Deboli, dimessi.
A Parigi forse è il contrario.
Chi guida si sente santo, martire, eroico testimone di una fede in estinzione; parte di una minoranza perseguitata da tutto: dalle istituzioni cittadine, Anne Hidalgo in testa, dai ciclisti, dai pedoni, dai sensi unici, dall’Unione Europea che vuole imporre auto elettriche e “città del quarto d’ora”.
In entrambi i casi (Genova, Parigi), la guida in città suscita e coltiva l’odio verso gli altri.
Enzo Biagi diceva: se volete capire il perché delle guerre, andate a una riunione di condominio.
Giusto.
In alternativa, sempre allo stesso fine, osservate chi guida in città.
E sarete sorpresi dal fatto che vi siano zone del pianeta ancora in pace.
4-Fantasy dinner: chi inviti a cena di personaggi del mondo sportivo dell’auto di ieri e di oggi ?
Non seguo gli sport automobilistici, che io associo ai sabati pomeriggio in casa con la televisione accesa e un insopportabile ronzio (“uaaaaaammm…. Uaaaaam”) mentre io ero indeciso tra diverse opzioni: suicidarmi o fuggire il più lontano possibile (per il momento, ho scelto la seconda).
Però due personaggi li inviterei.
Uno è Niki Lauda.
Il solo pilota di Formula Uno che mi abbia affascinato.
Mi piaceva la moglie, la pallida e bellissima Marlène che pareva uscita da un romanzo della Mitteleuropa, e faceva pensare all’ambigua protagonista di un magnifico libro, “Paura” di Stefan Zweig.
Ero rimasto colpito, da bambino, dall’incidente spaventoso in cui Lauda era rimasto sfigurato, e dal suo ritorno proprio all’ultimo Gran Premio, per non perdere il titolo mondiale messo a rischio dalla sua forzata assenza.
Sotto una pioggia battente, in Giappone, Lauda si era presentato, con sul volto i segni del suo martirio, e però poi si era ritirato.
Forse per paura.
E aveva perso di un soffio il mondiale.
Una storia romanzesca, bellissima. Coraggio e paura, destino e coazione a ripetere.
Poi c’era la storia dell’orologio.
Il pilota italiano Merzario, un tipo con l’aria da cowboy, lo aveva salvato, eroicamente, mettendo a rischio la sua vita, estraendolo dall’abitacolo in fiamme.
Lauda (che aveva la reputazione di essere spilorcio) per sdebitarsi anni dopo gli aveva regalato un orologio.
Da poco, per giunta.
Il secondo ospite a cena è Tazio Nuvolari.
Che rinasce, scrive Roversi per la canzone eponima di Dalla, “come rinasce il ramarro”.
Batte Varzi, Campari, Borzacchini e Fagioli Brilliperi e Ascari”.
Quel testo di Roversi, poeta straordinario, è uno dei capolavori del Novecento italiano.
E rende Nuvolari un personaggio indimenticabile.
(Senza dimenticare il formidabile nome: Tazio).
5-Rischio o prudenza cosa contraddistingue il tuo stile di guida. E di vita ?
Quando guidavo, da giovane, ero piuttosto spericolato.
Penso soprattutto in spregio, più o meno inconscio, alle ossessive e irragionevoli paure di cui mio padre mi aveva riempito la vita fin da piccolo.
Ho rischiato di ammazzarmi, due volte.
Una sull’autostrada da Genova a Torino.
Andavo forte, c’era una deviazione per lavori che vidi un po’ tardi.
La macchina si girò, rischiò di ribaltarsi, ma riuscii a controllarla.
Un’altra volta fu sul terribile tratto di autostrada che porta dal ponente al centro genovese.
Stretto, sinuoso, claustrofobico.
Andavo troppo forte, d’improvviso trovai la coda davanti a me e frenai di botto.
Testa-coda.
Se qualcuno dietro avesse fatto la mia stessa cosa, fosse cioè andato troppo forte frenando tardivamente, mi sarebbe venuto dentro e probabilmente avrebbe sfasciato l’abitacolo.
In entrambi i casi ero solo; in compagnia, non avrei mai guidato con altrettanta irragionevolezza.
Questi due incidenti non mi indussero a maggiore saggezza.
Guidavo nervosamente.
E non credevo davvero al pericolo.
Col tempo, al contrario, ho cominciato a guidare (l’auto o il motorino) molto più tranquillamente.
Non per saggezza. Dote che non possiedo.
E a cui non ambisco.
Ma per disinteresse verso l’aggressività.
È bellissima, la mitezza.
Va difesa, coltivata e accarezzata.
Dio benedica le persone miti.
6- “Salga Puppo …” quella volta che ti hanno detto « sali Maurizio e … “
Al Cairo, volevo guidare.
Una mia amica egiziana mi disse: guarda che non puoi.
Perché?
“Perché presto o tardi ti fermerai al rosso. Sarà più forte di te. E qui non bisogna farlo. Perché ti verranno dentro.
Perciò sali, ma per cortesia dall’altra parte”.
Non ero convinto.
Poi ho visto il traffico.
Aveva ragione lei.
7-Maurizio bambino sul sedile posteriore, Maurizio adulto su quello anteriore
Mio padre prese la patente e comprò una macchina (la famosa 500) solo dopo i 40 anni, quando io ero bambino.
Mia madre non guidava.
La mia famiglia non andava mai da nessuna parte, quindi le occasioni di spostarsi erano poche.
Ogni tanto andavano dagli zii, in un quartiere (Sampierdarena) a pochi chilometri dal nostro.
I miei zii erano giovani e allegri, io ero ancora piccolo e con loro giocavo, ridevo.
Quando tornavamo a casa ero esausto.
Mi sembrava eroico che mio padre, nel buio delle città deserta, riuscisse a prendere l’auto e tornare a casa.
È l’unico caso in cui ho provato ammirazione per lui.
Più in là, capii che mio padre era terrorizzato da qualunque cosa, e stare sul sedile posteriore con lui che guidava (sudava, si passava il fazzoletto sulla fronte, bestemmiava con voce tremante, rimproverava tutti noi di averlo costretto a prendere l’auto) era terribile.
Ogni piccolo imprevisto (un accenno di coda, una goccia di pioggia) diventava un dramma.
Io adulto, avevo un solo e unico programma in testa: non essere come mio padre.
Qualunque cosa, meglio o peggio poco importa, ma non come lui.
8-E dietro la curva ?
Oggi è diventato obbligatorio
(secondo gli stereotipi imperanti) essere ottimisti, “scommettere sul futuro”, dire che dietro la curva ci sono “nuove sfide”.
Un’interpretazione agonistica dell’esistenza, la dittatura della competizione vuota e della stupidità.
Il disprezzo del passato.
Fernando Pessoa invece scrive una cosa semplice e bellissima : “la morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto”.
Dietro la curva c’è il non essere visti.
9-Quella volta che ti sei perso, che non riuscivi a ritrovare la strada
Mi perdo dovunque. Ovunque.
Se imbocco una strada a sinistra, si può stare certi che avrei dovuto prendere la destra.
Una volta sono andato in America, e dall’aeroporto di Washington ho preso a noleggio un’auto per andare a Baltimora.
Ovviamente (strano, eh) mi sono perso.
Sono uscito dall’autostrada per chiedere informazioni.
C’era un drugstore con doppi vetri antiproiettile.
Sembrava di essere in un film di Tarantino.
Impossibile chiedere.
Poi, in un quartiere periferico, ho provato ad avvicinarmi a una casa. L’ambiente era quello del film Gran Torino di Clint Eastwood.
Mi aspettavo di prendere una fucilata.
È uscito un tale con camicia a quadri e baffoni.
Aveva due cani che mi fissavano attentissimi.
Ho chiesto indicazioni.
A sentire il mio accento straniero, ha strabuzzato gli occhi e mi ha guardato come si guarda un extraterrestre.
In capo a molti tentativi, ho ritrovato la strada.
Non so neanche io come.
Forse Dio c’è e ha avuto pietà della mia imbranataggine.
O forse anche lui ne era esasperato.
Graziato per stanchezza divina.
10- Un viaggio in auto Genova-Parigi o Parigi-Genova
Nel 2001, sono partito in auto da Genova per venire a vivere a Parigi.
Avevo una macchina veramente molto brutta (una Renault Mégane “tre volumi”), piena cone un uovo. Soprattutto di libri.
Quando ho imboccato l’ultimo tratto che portava alla città, mi sono sentito un avventuriero.
“Stai andando a vivere a Parigi”, mi sono detto.
Poi, in segno di benvenuto, la macchina me l’hanno subito sfasciata, in un parcheggio sotterraneo.
La targa straniera, e quindi una possibile presenza di valigie, deve avere fatto da esca.
Hanno rotto tutto e non hanno trovato niente.
C’era qualche libro, ma evidentemente non erano ladri intellettuali.
L’ho fatta riparare e poi venduta per due lire.
È stata l’ultima macchina che ho posseduto.
La prima una Fiat 126, come ho detto. Poi una A112. Scattante.
Una Fiat UNO. Grigia di colore e di fatto.
Una Renault 5 che non andava nemmeno a spingerla.
Una enorme Opel Ascona color giallo oro: vettura di gusto talmente discutibile da risultare quasi bella. Senza servosterzo: posteggiare era come andare in palestra.
E infine, appunto, la bruttissima Renault Mégane che mi portò da Genova a Parigi.
Sei automobili.
E non ce ne sarà una settima.
https://altritaliani.net/category/editoriali/le-pillole-di-puppo/
Una persona sicuramente eccezionale (sia nel senso delle qualità umane sia nel suo significato letterale “un’eccezione”)
Dopo poco righe (Dio come scrive bene!) ho la percezione che le sue sensazioni, opinioni, osservazioni siano in sintonia con la mia persona
Alla fine sono commosso come dopo aver ritrovato una persona cara (ma probabilmente è l’effetto che fa su tutti)
Solo due grandi differenze
La banalità della mia vita rispetto alla sua
La sua grandissima cultura, espressa con continue citazioni che paiono far parte integrante e naturale dello scritto! Come se descrivendo una casa dicessi che ti ricorda quella di tuo cugino!
Bravo Eraldo!