Sette domande immaginarie a Dante Giacosa – seconda parte

Che cosa c’è di più bello dell’intuizione che improvvisamente illumina una lunga, arrovellante, corrosiva, magari nebulosa meditazione e finalmente pone fine all’incertezza che sempre accompagna il lavorio della mente?”

A spizzichi e bocconi, liberamente evidenziamo dalla sua biografia: padre carabiniere, studia al liceo classico, nel 1959 gli fu conferito il Premio Compasso d’oro, dal 1947 al 1966 fu professore al Politecnico di Torino per il corso di costruzione di motori.

A 23 anni entra in Fiat, ne esce a 65.

Per decenni il Centro Stile Fiat fu sotto la sua guida, ha firmato e progettato decine di automobili di straordinario successo, automobili che “hanno fatto gli italiani”, loro si’, da Nord a Sud.

Dirigere gli uffici tecnici non significava per me semplicemente fare il direttore, ma sviluppare in proporzioni di gran lunga maggiori il ‘mio’ lavoro: ideare, pensare a tutta l’attività che è peculiare del progetto.

Significava esaminare ogni giorno sui tavoli da disegno il progredire degli studi e il graduale definirsi del nuovo modello di vettura, autocarro o autobus o altro veicolo, così come lo avevo immaginato in relazione ai programmi della Fiat”.

Padre, come detto, maresciallo dei Carabinieri, e pensi a Marchionne che aveva anche lui un padre maresciallo dei Carabinieri.

Strano il legame che lega la Fiat ai Carabinieri.

Sarà il rigore, la disciplina, il senso di appartenenza, c’è qualcosa di profondo tra la Fiat e i Carabinieri, quasi da psicoanalizzare.

Conoscere la lingua latina e la greca gli diede “un senso di misura ed equilibrio senza il quale non avrei potuto svolgere il mio lavoro”.

Se pensi a chi ha fatto grande la Fiat, i nomi restano nelle dita di una mano, o poco più.

Agnelli, Valletta, Giacosa, Agnelli l’avvocato, Ghidella, Marchionne quali altri “grandi”hanno lasciato un segno, tracciato una strada, automobilisticamente parlando?

Giacosa uno di questi pochi sicuramente.

Muore a Torino a 91 anni, ed è sepolto nel cimitero di Neive.

Progettare è anche valutare le difficoltà, individuare i problemi essenziali e risolverli nel modo più semplice e completo”.

In mostra all’Heritage hub di via Plava a Torino la mostra su Dante Giacosa.

Da non perdere, fino a metà settembre.

Direttamente dal Paradiso del Design e dell’Ingegno Motoristico, ecco la seconda parte dell’intervista immaginaria all’ingegner Dante Giacosa, e grazie a Roberto Giolito per averlo impersonificato con competenza, conoscenza e passione.

1. Dove è finita tutta la creatività del suo tempo? Era più facile allora? Che ci dice delle auto di oggi dall’alto… della sua.. esperienza?

Non era più facile. Ma era più urgente. Dovevamo progettare con pochi mezzi, risolvendo problemi concreti: materiali limitati, costi stringenti, bisogni popolari.

Oggi c’è molta più tecnologia, ma si rischia l’appiattimento.

L’auto moderna è sicura, efficiente, ma spesso manca di personalità.

La creatività, oggi, deve tornare a confrontarsi con la realtà e ciò che la tecnologia prevede, non solo con il marketing.

Partivo sempre da una domanda: “A chi serve questa macchina?”

Poi cercavo di dare risposte tecniche coerenti: dimensioni, peso, costi, accessibilità.

In funzione di ciò prendeva forma anche l’aspetto estetico, tanto da creare un insieme che definirei ‘organico’ con il suo contenuto.

Il mio metodo era asciutto: volevo che ogni linea avesse un motivo.

Un’auto ben progettata è quella in cui niente può essere tolto.

2. Che cosa pensa della “nuova” 500, quella del 2007?

È un progetto che ho osservato con attenzione e con rispetto.

Giolito e il suo team sono riusciti a cogliere l’anima della 500 originale, ma traducendola in chiave moderna su un’architettura molto innovativa.

La nuova 500 del 2007 non è un semplice revival, è una reinterpretazione intelligente, perché sfrutta la piattaforma della Panda ma con uno sbalzo ridotto davanti, e con una progettazione della scocca davvero raffinata, tanto da essersi meritata anche il 1° premio della Automotive Engineering Society nel 2008.

Ha riportato l’auto nel campo dell’identità affettiva, oltre che tecnica. E questo non è facile oggi, ma quando succede è giusto riconoscerle il successo ‘planetario’ che ha avuto, (3 milioni di pezzi prodotti di quella serie e venduti in tutto il mondo, con l’80% delle vendite fuori dall’Italia), e ancora oggi al top delle vendite del segmento con la versione BEV.

3. Se potesse invitare a cena alcuni protagonisti dell’auto, chi sceglierebbe?

Mi piacerebbe cenare con Alec Issigonis, il papà della Mini.

Poi con Nuccio Bertone, Renzo Piano, Enzo Mari e Achille Castiglioni, per parlare di forma e funzione.

E inviterei anche Ferdinand Porsche, con cui avremmo molto da discutere. Infine, un progettista dei nuovi sistemi di mobilità per confrontare approcci e visione, dopo aver visto il piccolo robotaxi a guida autonoma ZOOX per le strade di San Francisco.

L’auto cambia, ma il cuore del progetto resta lo stesso.

4. Se unisce i punti della sua carriera, che disegno vede?

Vedo una linea semplice che cerca sempre di essere utile.

Ho lavorato per democratizzare la mobilità.

Non ho mai pensato all’auto come oggetto di status, ma come strumento di libertà.

Sono anche convinto che, se si parla di automobili, icone si diventa e non si nasce…

Ogni progetto era un’occasione per migliorare la vita quotidiana di qualcuno.

5. Com’è cambiato il ruolo del designer d’auto?

Il designer con cui avevo a che fare doveva capire la meccanica ed entrare sempre nel dialogo partecipe con tutto il team per avanzare e sostenere le proprie idee.

Oggi il ruolo si è specializzato: c’è chi fa solo forma, chi solo calcoli, chi decreta già in partenza le specifiche tecniche fino all’ultima virgola.

Ma rischiamo di perdere la visione unitaria del progetto.

Il vero designer deve saper parlare con chi costruisce, e soprattutto con chi guida o si farà trasportare dalla nuova automobile, contribuire all’organicità di ogni opera, sia che si tratti di un mezzo d’uso, sia che si tratti di un’automobile sportiva.

Se penso al lavoro fatto sulla berlinetta 202 Cisitalia, con Piero Dusio e Pininfarina, che emozione ricordare la profusione di idee e esperienza nel mettere assieme quel capolavoro, la prima auto poi entrata di diritto al MoMA di New York come opera d’arte! Ad un giovane progettista consiglierei di non limitarsi allo schermo, alle apparenze.

Vai in strada, osserva le persone, guida auto vecchie.

Impara dai progetti nati dalla necessità, non solo dalla forma e dai dettami grafici.

E ricordati: l’automobile è prima di tutto una soluzione, poi un’emozione.

Quelli che mettono la parola emozioni prima di ogni altra, molto spesso cercano di vendere ciò che un prodotto non è in grado di realizzare e regalare. Io trovo ancora emozionante guidare una Fiat 500D col tettuccio aperto anche facendo la doppietta in scalata…

6. Che ne pensa della Fiat Multipla degli anni Novanta? E di quel progettista che si è ispirato alla sua creazione?

Un progetto straordinario.

Incompreso, forse, ma profondamente coerente.

La Multipla di Giolito aveva una configurazione interna intelligente e una visione radicale, basate su un pianale capace di ospitare, senza sporgenze sotto né intrusioni nell’abitacolo, i serbatoi del gas e anche le batterie di una versione ibrida. L’idea della multi-alimentazione, e poi il volume esterno per ospitare i 6 passeggeri in un vero salotto, risolto in due forme impilate; una bolla ampia, con grandi ‘vetrature’ con linea di cintura bassissima con un tetto che ripara dai raggi del sole e dalla pioggia, ed un corpo inferiore basso e filante, che ricopre la meccanica, con superfici davvero belle e concepite all’avanguardia dei concetti formali.

E quella fascia in plastica davanti, che spettacolo vedere un componente così complesso, che integra proiettori, tergicristallo e filtro anti-polline, montato in fabbrica già tutto assemblato e pronto all’uso!

Fu un atto di coraggio, come lo era stata la nostra.

E oggi, a distanza di anni, è giustamente rivalutata.

7. E dietro la curva?

Dietro la curva c’è sempre qualcosa che non conosciamo.

Ma se progettare è prevedere, allora dobbiamo essere pronti ad affrontare il futuro con competenza, immaginazione e responsabilità.

L’auto non è finita, come borbottano coloro che si spacciano per intenditori.

Sta cambiano forma, concetti costruttivi e modo di essere usata e anche posseduta.

E cambierà ancora.

Siamo ancora nell’età dell’adolescenza e presto sarà in grado di camminare davvero da sola!

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