Finisce, dopo 80 anni, la lunga storia incredibile di un’auto senza eguali

Capita spesso che qualche manager di case automobilistiche, in occasione del lancio di un nuovo modello popolare usi il termine “democratizzazione dell’auto”. Per meglio capire di che si sta parlando è sufficiente ricordare quello che è accaduto negli anni sessanta in Italia con la motorizzazione di massa, prima con la Fiat 600, poi con la 500.

Ma andiamo indietro di qualche decennio e riprendiamo una serie di dichiarazioni fatte da un governante molto potente (…indovinate quale) dal quale mai ci saremmo attesi teorie così “socialdemocratiche”

 “Finché l’automobile resterà privilegio esclusivo della classe benestante, per tutti gli altri milioni di bravi lavoratori…sarà amara la sensazione di sentirsi esclusi dalla possibilità di utilizzare questo mezzo di trasporto, che non soltanto potrebbe essere loro utile, ma potrebbe anche essere fonte di felicità e gioia nelle giornate di festa. Dobbiamo togliere all’automobile il carattere di privilegio e il valore di spartiacque che ha assunto tra le fasce sociali!”

“…voglio vedere una macchina… prodotta in serie che possa essere acquistata da chiunque si possa permettere una motocicletta. Dobbiamo arrivare ad avere un’auto per il popolo”

“Sono stati impiegati quattro anni per sviluppare un modello di macchina che a nostro giudizio soddisfi non solo la filosofia del prezzo contenuto ma che rappresenti anche il massimo della qualità con il minimo dispendio di lavoro…Questo modello diventerà l’automobile che milioni di cittadini a basso reddito potranno permettersi. Questa è senza dubbio, grazie al lavoro di ingegneri, meccanici e commercianti, l’automobile migliore del mondo. Oggi ne sono convinto: diventerà anche tra breve l’auto più economica…

con questa macchina, le cui prestazioni la rendono superiore a qualsiasi altra al mondo nella sua classe di prezzo, vogliamo dare al popolo … la possibilità di acquisire un bene che fino ad oggi è stato per pochi. Semplificherà l’andare al lavoro, regalerà ristoro e riposo nei fine settimana e nelle vacanze e permetterà al lavoratore … di partecipare e godere dei frutti della tecnologia del nostro secolo”.

Queste frasi furono pronunciate incredibilmente, da Adolf Hitler. Un terribile dittatore, che in realtà, ha usato l’automobile per i suoi fini propagandistici.

Hitler aveva voluto fortemente la realizzazione di un’auto che nel dopoguerra paradossalmente è poi diventata un’icona della trasgressione nel mondo dei giovani, che l’hanno vissuta come simbolo di libertà, di indipendenza e di contro-potere. Stiamo parlando del Maggiolino Volkswagen.
Ferdinand Porsche negli anni trenta aveva aperto uno studio tecnico a Stoccarda in Kronenstrasse, dove, dopo aver collaborato con la Mercedes e l’Auto Union, aveva deciso di progettare per proprio conto. Iniziò subito con grande impegno a registrare brevetti di soluzioni innovative, ma soprattutto depositò il “Progetto 12”, l’auto del popolo. Era un’idea che aveva da tempo: una vettura per tutti, completamente diversa da quelle sul mercato, con caratteristiche del tutto originali. Tuttavia, un paio di primi tentativi sviluppati con Zundapp, il primo costruttore di motociclette tedesco, poi con NSU, fabbrica di automobili, andarono falliti.

Nell’inverno del 1933 Hitler promise di abolire la pesante tassa di circolazione sulle vetture nuove, semplificò le regole per ottenere la patente di guida, annunciò un piano di sviluppo per la rete autostradale, promise un maggiore sostegno dello Stato al mondo delle corse automobilistiche, utili anche a rafforzare l’immagine della Germania nel mondo. E immaginò una nuova automobile popolare con un prezzo che tutte le famiglie tedesche avrebbero potuto permettersi.
In realtà sul mercato tedesco c’era già una vettura con caratteristiche simili: la nuova Opel, venduta a 1500 marchi. Ma non era questa l’auto a cui pensava il Cancelliere, lo dichiarò pubblicamente e così involontariamente incoraggiò Porsche a presentargli il suo “Progetto 12”.

Nel maggio del 1934  Hitler approvò in parte il progetto, ma pretese dei miglioramenti su due aspetti: il consumo, che non avrebbe dovuto superare i sette litri per 100 chilometri, e il prezzo, non doveva superare i mille marchi.

Appena un mese dopo, il 22 giugno, Porsche sottoscrisse con RDA (l’associazione tedesca dei costruttori di auto) un accordo con il quale si impegnava a realizzare tre prototipi entro dieci mesi. La vettura non sarebbe costata più di 990 marchi, con una produzione di almeno 50.000 unità.

Il tempo passò velocemente e dei tre prototipi non si ebbero notizie. La realizzazione del progetto risultò più difficoltosa del previsto, soprattutto per quanto riguardava il contenimento del prezzo. Il primo studio, con un quattro cilindri in orizzontale e raffreddamento ad aria, venne subito bocciato dal suo più grande oppositore, Heinz Nordhoff, il rappresentante per Opel nel comitato di controllo della RDA, che lo giudicò troppo simile ad un motore aeronautico, e che quindi non si sarebbe potuto vendere a 1000 marchi.
Porsche allora scelse un due cilindri, a due tempi, raffreddato ad aria, di tipo quasi motociclistico, che però non aveva abbastanza potenza per spingere una macchina per quattro persone con relativo bagaglio. L’auto tanto attesa non sarebbe stata pronta per l’apertura del Salone di Berlino del 1935. Hitler, che in altre situazioni simili avrebbe avuto meno pazienza,  stupì tutti con il discorso per l’inaugurazione, dove ebbe parole di lode per Porsche: “Sono lieto che un brillante tecnico, Ferdinand Porsche, insieme al suo staff, abbia completato i progetti della macchina del popolo. Prima che l’estate sia terminata, i prototipi inizieranno i test di prova”.
Ma anche questa volta la scadenza non fu rispettata, sempre per l’impossibilità di contenere i costi. Porsche arrivò ad impiegare ben quaranta ingegneri per raggiungere soltanto questo obiettivo.

Tutto sommato a Hitler faceva comodo tutto ciò, perché gli permetteva di attaccare pubblicamente l’incapacità dell’intero settore industriale automobilistico, e prepararsi il terreno per arrivare di fatto a mettere la Volkswagen nelle mani del partito nazista. Probabilmente fin dall’inizio di questa storia questo era il suo vero obiettivo.
Quando ormai tutta l’industria automobilistica pensava con sollievo che il progetto non si potesse realizzare, il 12 ottobre 1936 i primi prototipi: due berline e un cabriolet furono consegnati alla RDA.
Duri test vennero effettuati in due mesi, si percorsero oltre 50.000 chilometri. Si ruppe di tutto, com’era prevedibile per tre automobili costruite a mano. La secca relazione presentata ad Hitler da parte della RDA denotava poco entusiasmo e incrinò ulteriormente i rapporti fra Porche e i costruttori tedeschi.

Venne richiesto di testare altri prototipi, ne furono ordinati 30 alla Daimler, ma non sarebbero stati pronti prima del l’inizio del 1938. A questo punto la RDA era in possesso dei dati di costo precisi che dimostravano l’impossibilità di restare sotto 1000 marchi. Una rappresentanza chiese udienza a Hitler, e gli propose di sostituirsi a Porsche nella prosecuzione del progetto, in modo da poterlo completamente rielaborare. Le quattro aziende più grandi, Daimler, Opel, Auto-Union e Adler, avrebbero poi provveduto a costruire l’automobile e a venderla al pubblico a 1000 marchi, ma con un contributo del governo di almeno 200 marchi a vettura.
Anche Hitler aveva deciso che era giunto il momento di decidere. Già aveva mal sopportato il fatto di dover annunciare al Salone del 1937 che i test stavano proseguendo e che non sarebbe stato possibile commercializzare la nuova vettura prima del 1939 e ancor di più la presentazione, proprio al Salone di quell’anno, da parte della Opel, ormai proprietà della statunitense General Motors, del modello “popolare” P4, venduto a 1450 marchi. Inoltre temeva che altri oltreoceano sarebbero arrivati alla “vettura del popolo” prima di lui. Ed allora, scavalcando l’intero settore automobilistico tedesco, decise: l’intero progetto Volkswagen sarebbe stato “regalato” alla KdF (Kraft durch Freude, la forza attraverso la gioia), l’organizzazione di dopolavoro del partito nazista che aveva sostituito i sindacati. La KdF avrebbe sostenuto i costi per la costruzione di un nuovo stabilimento, attingendo dai propri fondi costituiti dai versamenti mensili dei lavoratori tedeschi. La vettura sarebbe stata commercializzata direttamente, senza intermediari, e il prezzo sarebbe rimasto al di sotto dei 1000 marchi, perché non vi era bisogno di farvi rientrare i costi di sviluppo, le commissioni di vendita, gli ammortamenti e i profitti industriali. Una soluzione geniale che tanti costruttori attuali sognano, ma che per mettere in atto bisogna essere un dittatore vero.
Il 20 febbraio 1937, all’apertura del Salone, gli industriali scoprirono in diretta dalle parole di Hitler le sue intenzioni. Non si può neanche dire che ne furono colpiti: anzi, la sensazione generale fu di sollievo. Essere stati esentati da un progetto che ritenevano irrealizzabile, li liberava finalmente a potersi dedicare con maggior impegno ai propri affari, che andavano alla grande. La produzione era sestuplicata nel 1936 rispetto al 1932, l’anno precedente la presa del potere da parte di Hitler. Nel ’36, infatti, in Germania vi era una automobile ogni 54 abitanti, un bel progresso rispetto a un’auto ogni 100 abitanti di due anni prima.

Il nuovo stabilimento sarebbe stato costruito a Fallersleben, vicino a Berlino, in un’area agricola in Bassa Sassonia, sovrastata dal castello di Wolfsburg (letteralmente: la tana del lupo). Albert Speer, l’architetto del Reich, progettò qualcosa di mai visto fino ad allora: la prima fabbrica integrata nel territorio circostante. L’intenzione era quella di realizzare una vera e propria città in grado di alloggiare due turni di dodicimila operai con le loro famiglie, per un numero complessivo di novantamila abitanti. Per riuscirci in fretta fu persino richiesta manodopera all’amico Mussolini.

La posa della prima pietra della fabbrica Volkswagen avvenne il 26 maggio 1938, 70.000 persone assistettero alla cerimonia, pensata nei minimi particolari secondo il meticoloso cerimoniale nazista: ospiti 600 vip e 150 selezionatissimi giornalisti. Divise militari, braccia tese nel saluto nazista, svastiche, folla osannante, biondi ragazzini che da lì a poco sarebbero stati mandati a morire in tutta Europa.
Al Salone di Berlino del febbraio 1939 la KdF-Wagen (il nome “Maggiolino” le fu dato soltanto nel 1967) fece la sua apparizione ufficiale, e il successo fu immediato. Hitler per finanziare la costruzione della fabbrica che procedeva a rilento si inventò una sorta di risparmio forzoso. I cittadini che volevano ordinare la nuova vettura dovevano anche comprare delle cartelle di risparmio su cui incollare dei bollini da cinque marchi la settimana, fino al raggiungimento del costo dell’auto. Si doveva di aspettare soltanto… tre anni e mezzo. I trecentomila tedeschi che corsero a prenotarsi una Volkswagen poteva immaginare che non una sola macchina venne ultimata durante il Terzo Reich. La guerra, scatenata da Hitler nel settembre 1939, portò all’immediata conversione bellica di tutta la produzione civile, e la stessa Volkswagen cominciò la sua esistenza producendo la Kubelwagen, ossia la versione militare della macchina del popolo, prodotta in circa 55000 esemplari dal 1940 al 1945.

Alla fine della guerra, Wolfsburg era quasi completamente distrutta dai bombardamenti. Gli alleati avevano in mente di completare la demolizione, ma il salvataggio dell’azienda fu proposto da Ivan Hirst, un ufficiale inglese, ingegnere meccanico particolarmente esperto di automobili, che propose di rimettere in funzione la fabbrica per costruire automezzi per l’esercito inglese. Il progetto venne affidato allo stesso Hirst. I lavori di ricostruzione muraria, affidati a operai italiani, furono terminati negli ultimi mesi del 1945 e, dopo una veloce sistemazione delle infrastrutture, la produzione riprese seppure tra mille difficoltà, riuscendo in breve tempo a stabilizzarsi sul migliaio di vetture al mese.

Rimessa in moto l’azienda prima di far ritorno in patria, il maggiore Hirst scelse un direttore tedesco per la nuova Volkswagen; non fu facile dato che i vecchi manager tedeschi erano caduti in guerra o compromessi con il passato regime nazista. La scelta cadde sull’ex Opel Heinz Nordoff, il più grande oppositore di Porsche di cui abbiamo detto prima, che prese le redini aziendali il 1º gennaio 1948 riuscendo abilmente a incrementare il ritmo produttivo, fino a produrre nel 1949, quasi cinquantamila esemplari. Una crescita continua che  fece del Maggiolino una delle vetture più vendute al mondo con quasi 22 milioni di vetture prodotte in diversi stabilimenti del mondo.

L’ideatore del Maggiolino Ferdinand Porsche, accusato nel 1947 di crimini di guerra fu arrestato e incarcerato in Francia, dove poi venne liberato. Morì il 30 gennaio del 1951, lasciando a suo figlio Ferdinand “Ferry” Porsche la guida della sua casa automobilistica. Ma questa è un’altra storia.

Ma dato che tutto finisce (…forse), proprio in questi giorni la Volkswagen ha annunciato la fine della produzione del mitico “Maggiolino”

La produzione in Germania era già finita nel 1978, per costruire la sostituta Golf, ma era continuata in Messico dove il Maggiolino era diventato così popolare da essere chiamato “El carro del pueblo”. Ma oggi cala definitivamente il sipario con l’ultimo esemplare costruito destinato al museo della Casa.

“Il Maggiolino – ha scritto il New York Times. – Ha fatto parte delle ore più buie della Germania in quanto progetto prestigioso …, è stato un simbolo della fioritura dell’economia tedesca del Dopoguerra e della prosperità della classe media nascente; un esempio della globalizzazione, venduto e riconosciuto in tutto il mondo; un emblema della contro-cultura negli Stati Uniti. Oltre a tutto questo, l’auto è un punto di riferimento del design, riconoscibile come la bottiglia della Coca Cola».

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