Le tre lezioni di Valentino, il ragazzo infinito

La lezione di Valentino inizia quando lui è indietro, molto indietro. Perchè non è indispensabile vincere per insegnare qualcosa, ma è indispensabile risalire e crederci per vincere lasciando qualcosa dietro di sè.

Valentino Rossi, domenica sera in Argentina, ha tagliato per primo un altro traguardo nel Motomondiale: gli era successo 109 volte in carriera, non è questa la notizia. Come non lo è mai, quando sei indiscutibilmente il migliore. La notizia, semmai, è proprio l’indiscutibilmente. La sua continua trasversalità cioè, la capacità ancora oggi di piacere a tutti, di essere idolo sportivo contemporaneamente di giovani sbarbati e cinquantenni adoranti, “fidanzato” segreto di mamme rapite dal suo sorriso e con un rimpianto di libertà tra i capelli, ma anche nipote ideale di nonni con la velocità nelle rughe.

Non si arriva a tanto per caso: bisogna possedere dentro una marcia in più e non solo “il polso”, nuovo soprannome coniato per lui alludendo al gas che dà alla sua moto. E forse anche alla maturità finalmente raggiunta per “sentire” le situazioni e capire che in questo mondo di sportivi ragazzini, lui a 36 anni poteva ancora starci, anche da maturo bambino infinito.

La lezione di Valentino, domenica sera, è iniziata dall’ottava posizione. Ha sorpassato, ha spinto, ci ha creduto, ha sfidato la corrente come un salmone bendato e consapevole. E alla fine ha battuto Dovizioso, Crutchlow e Lorenzo. La meglio gioventù su due ruote, quelli che con meno, molto meno, dei suoi anni sembravano alla fine così antichi sul podio al suo fianco. Comunque diversi.

Lui, seconda lezione, prima di batterli li ha profondamente rispettati. Li ha studiati, da “dottore” è andato a scuola dai suoi infermieri, non si è mai lamentato della superiorità perduta. Anzi l’ha trasformata in elisir di lunga vita. Così ha fiaccato Marquez, il ragazzino terribile, campione vero ma con più talento che cervello, che per recuperare la rabbia del sorpasso subìto, è caduto. Sprecando per troppo volere un secondo posto sicuro e prezioso. Una specie di resa – momentanea certo perchè nello sport le sentenze definitive non esistono – quella dello spagnolo, all’antico re. Più forte, più esperto, più capace ancora di infilarsi negli spazi, quelli che l’abilità e la consapevolezza di se regalano a chi ha saputo meritarseli.

Valentino in questo è cambiato. Indossa la maglia di Maradona sul podio, scherza, gioca. Ma non è più il cartone animato che vent’anni fa vinceva la sua prima gara. Nel frattempo ha conquistato 9 titoli mondiali, ma ha anche perso, ha sofferto, si è spaccato e si è rincollato. E ha pianto per tragedie che lo hanno coinvolto, nelle ruote e nel cuore. Ha imparato per lunghissimi mesi cosa vuol dire arrancare, stare dietro malgrado un cognome da prima fila. Non vincere più, non funzionare più.

Poteva dire basta, allora. Ritirarsi già un paio di stagioni fa, ricco, felice (chissà, questo solo lui può dirlo), di certo appagato da una storia sportiva mirabilante, ripetibile da nessuno. Non lo ha fatto, probabilmente non poteva. Qualcuno ha scritto che arrendersi non significa sempre essere deboli. A volte significa essere forti abbastanza da lasciar perdere. Grande tentazione, ma non per lui.

Quando nel 2011 sulla pista di Sepang, Valentino travolse – senza colpa ed insieme ad altri – l’amico Marco Simoncelli, uccidendolo, avrebbe avuto un’altra occasione per chiudere. Tragedia, tristezza, nausea, paura: in che altro modo può avvisarti il destino? Invece non si è fermato nemmeno allora. I campioni sono fatti così, hanno sempre bisogno di inseguire se stessi, o almeno di continuare a divertirsi.
Rossi questo comunica.

Ha dimostrato che per andare avanti, può essere utile anche tornare indietro, e strisciare tra i ricordi di quello che volevi essere e ancora sei. E questa è la sua terza lezione. È un privilegiato Valentino, certo. Può permettersi di fare il mestiere che ha scelto. Ma per continuare a farlo deve mettere la freccia e superare gli autunni, con la voglia, il coraggio e l’entusiasmo che tutti vorremmo avere e spesso non abbiamo, impauriti dalla nostre curve personali, disillusi da un asfalto sempre più freddo e insidioso, contagiati dal disimpegno imperante che ci fa smarrire la pista, il senso, il traguardo.

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