Considerazioni (semiserie) sui nomi delle automobili

Che “nomina sunt consequentia rerum” per il termine “automobile” è (ontologicamente!) vero: quanto ai singoli modelli, qualche volta lo è, ma più spesso è qualcos’altro, che ha a che fare con l’evocativo, l’onirico, insomma al massimo con il verosimile. Tanto per prenderla ancora più alla larga, dare nomi alle cose (e agli animali e alle piante) è compito affidato da Iahvè ad Adamo: che era solo, si consultò con se stesso e tutto sommato aveva a che fare soltanto – si fa per dire – con tutto quello che si trovò attorno, già esistente.. così perlomeno il Genesi.

In seguito ci si sarebbe dovuti misurare con tutte le cose (e, guarda un po’, le piante e anche gli animali, ultimamente) che i discendenti avrebbero prodotto, automobili comprese. Complicazione non da poco, alla quale si aggiunse quella dei nomi “speciali”, dati a certe cose (e animali e piante) cariche di senso e valenze particolari – che so, le spade e i destrieri di re, cavalieri ed eroi.. Comunque con l’aumentare del numero delle cose, la ragione greca – che tendeva a prendere poco sul serio storie come quelle del Genesi – aprì la discussione se i nomi venissero dati in modo spontaneo, “ come suggeriti dalla natura stessa”, oppure per convenzione. Platone riteneva che la verità stesse a metà strada tra le due opinioni (sofistiche): e quel che si diceva per “automobile” e per i singoli modelli sembrerebbe confermarlo.

D’altronde, dare un nome (magari vezzeggiativo, non tutti sono re, cavalieri, eroi etc.) è un modo di appropriarsi delle cose o quantomeno di farsele meno estranee: e figurarsi nel caso dell’auto, con la quale e nella quale un po’ per volta si è finiti letteralmente per vivere. Senza contare che, storicamente, il processo di scelta dei nomi delle automobili e la sua direzione sono cambiati parallelamente alle evoluzioni tecniche e di mercato, con un (lungo) punto di svolta nel passaggio dall’età eroica a quella moderna e poi del mercato di massa: a cavallo degli anni ’30 e con una vera e propria esplosione negli anni ’50 del secolo scorso, in tempi diversi da paese a paese. Fino a quel momento – durato un paio di decenni, causa una guerra mondiale – si potrebbe dire che nel “naming” delle automobili, sui nomi “propri” prevalevano i nomi (rassicuranti) dei costruttori stessi  e sigle in lettere e/o numeri: rapporto che si sarebbe progressivamente rovesciato.

Naturalmente non si trattò di un taglio netto. Si sarebbe scelto a volte di mantenere in tutto o in parte il “naming” precedente (un caso per tutti, quello di Peugeot) oppure di battere decisamente strade  nuove, come nel caso delle marche orientali, per ovvi motivi di suono e comprensibilità sui mercati occidentali. Ma il processo di umanizzazione dell’oggetto automobile era ormai irreversibile e continuamente sollecitato dall’invenzione di nuovi nomi, realizzando en passant uno dei (tanti) timori di Nietzsche : “sono indicibilmente più importanti i nomi dati alle cose di quel che esse sono (…) Ma non dimentichiamo che basta creare nuovi nomi, valutazioni e verosimiglianze, per creare, col tempo, nuove cose.”

inomi2Insomma, un neanche piccolo intrico di processi, scelte più o meno indovinate, valutazioni linguistiche, psicologiche e di marketing, attorno al quale è per giunta cresciuto un mondo di aneddoti, storie e storielle di ogni genere. Un “accompagnamento” che concorre a colorare il mondo da “cartoon” in cui è fatta muovere l’automobile. A tutto questo ha dedicato tempo fa un bel libro Enzo Caffarelli (“I nomi delle automobili”- Società Editrice Romana), dove si può trovare per esempio la storia della nascita del nome “Giulietta”. Vera o semi vera che sia, resta comunque deliziosa, con quel principe (?) russo, esule costretto per campare a inventare giochi di parole, battute e versi per i clienti del ristorante in cui, una sera, cenava un gruppo di dirigenti Alfa Romeo. Tra essi il poeta e consulente pubblicitario Leonardo Sinisgalli e sua moglie, unica signora presente: “siete sette romei ed ora avete anche una giulietta”, fu la splendida trovata del principe.. E con Giulietta ed altri nomi “umani”, una cascata di luoghi, toponimi, animali, venti, stelle, divinità, tribù, sigle tecnologiche, oggetti e concetti  vari e chi più ne ha ne metta, compresi gli svarioni spesso boccacceschi in cui qua e là si è incorsi non verificando significato, suono e assonanza del nome scelto in un’altra lingua.

E almeno in un’occasione, che aggiungo alle tante riportate da Caffarelli, un nome diciamo scomparve, poco dopo esser nato, sessant’anni fa. In quell’anno lì, il 1958, Olivier Gendebien, tra la vittoria alla Targa Florio in coppia con Luigi Musso e quella alla 24Ore con Phil Hill, aveva accettato la curiosa idea di provare una 2CV, sebbene con due motori . La guidò da Parigi alla Camargue e ritorno, riportandone un’impressione molto positiva, non del tutto condivisa dalla stampa, a causa dell’eccessiva spartanità e di quell’aria vagamente marziale: si trattava infatti della 2CV (per ora) “Sahara”, due motori e quattro ruote motrici, sbocco naturale delle esperienze accumulate dalla 2CV nei dieci anni della sua seconda vita , (ri)nata com’era nel 1948 dopo i duecentocinquanta prototipi  “TPV” del 1939. Quello strano oggetto, per il quale si erano sprecate non poche ironie al suo apparire, aveva quasi subito messo in mostra una doppia e per sempre inestricata natura di utilitaria e avventuriera, dalla quale fiorì presto l’idea della trazione integrale, con il primo montaggio artigianale di un secondo motore, a cura di un appassionato. E dopo un’opportuna verifica degli spazi di mercato, si concluse che sì, esistevano, in particolare nelle colonie…..Già, le colonie: quando nel ’57 la decisione fu presa, ad Algeri era in corso la “battaglia” splendidamente raccontata nel suo film da Gillo Pontecorvo. Erano quattro anni che il Fronte di Liberazione algerino – oltre a lottare sanguinosamente con il Movimento Nazionale …algerino – conduceva una lotta fatta di guerriglia e attentati, ai quali l’esercito francese, reduce dalla sconfitta in Indocina nel ’54, rispondeva con almeno altrettanta ferocia. Ad Algeri, nel’57, il prefetto Massu, usando tutti i “mezzi”, aveva ristabilito un ordine provvisorio. Tanto provvisorio che quando, l’anno seguente, il governo francese accennò a possibili aperture di trattative, i francesi d’ Algeria, con la connivenza dei militari, scatenarono una reazione che travolse la Quarta Repubblica e portò De Gaulle alla presidenza della Quinta, quale supposto sostenitore dell’Algeria francese.

Ma già nel settembre ’58 il presidente prospettava una soluzione di progressivo passaggio dell’ Algeria dall’autonomia all’indipendenza: sarebbe seguita un’altra sollevazione di civili e militari,  con l’avvio di un terrorismo antiarabo e di un tentativo di putsch organizzati dall’OAS del generale Salan. Parigi avrebbe visto nel ’61 una violenta repressione (peraltro cancellata dalle cronache) di una manifestazione algerina pacifica ed un fallito attentato OAS a De Gaulle l’anno dopo.

In questo scenario la 2CV Sahara, uscita nel ’59 dallo stato di prototipo, era già apparsa al Salone di Parigi del ‘6O, in curiosa contemporaneità con il suo esatto opposto, la DS Cabriolet; la produzione sarebbe iniziata nel dicembre seguente, ma all’atto dell’indipendenza dell’Algeria, nel luglio ’62, il nome “Sahara” opportunamente e silenziosamente scomparve, sostituito da un tecnico “4×4”, restato tale fino alla fine, nel 1966. E questa volta alla discussione se “nomen” era o no “consequentia rerum”- e lo era – ci pensò comunque la storia a mettere il punto finale.

 

 

2 commenti
  1. Gianfranco Chierchini
    gianfranco chierchini dice:

    Un bell’articolo, che dà informazioni in una forma semplice e assieme colta.

  2. Paolo Altieri
    Paolo Altieri dice:

    tutto ciò che scrive Walter merita sempre di essere letto dalla prima all’ultima parola. Complimenti …

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