Enzo Ferrari racconta

(N.d.r.) Daniele Protti ci regala alcune preziosissime pagine tratte da L’Europeo del 1962, dove Enzo Ferrari racconta in prima persona momenti della sua vita e descrive i più famosi piloti dell’epoca, così come lui li ha conosciuti.

Enzo Ferrari:

“La mia vita con l’ Alfa! È una storia nella quale, più vi ripenso, più trovo un numero sempre maggiore di motivi e di sollecitazioni diverse per divagare e allargare la memoria fino a comprendere una infinità di personaggi, uno legato all’ altro, quasi al filo di una vicenda che non esito, ora, a definire favolosa e quasi felice. Restai all’Alfa Romeo fino al 1939, e fino al ‘ 31 anche come corridore. Fu la nascita di mio figlio a capovolgere la mia vita, a farmi decidere di smetterla con le corse. Nel 1929 mi ero apparentemente staccato dall’Alfa per costituire la scuderia Ferrari, che si serviva di macchine della casa milanese e ne era il naturale completamento sul piano sportivo. Quando nel 1938 fui chiamato alla direzione della gestione corse dell’Alfa, poco cambiò oltre la denominazione della mia attività. Nel 1939, cioè proprio l’anno dopo, lasciai l’Alfa Romeo per sempre. Fu un distacco doloroso, anche perché avvenuto attraverso una serie di circostanze spiacevoli. All’Alfa Romeo mi ci trovavo bene, sia pure attraverso accesi contrasti che testimoniavano se non altro una passione comune. Cominciavo soprattutto a sentire con istintiva prepotenza la mia vocazione di agitatore di uomini e di problemi tecnici. Tengo a dire che, quale fui allora, sono adesso: mai mi sono considerato un progettista, un inventore, bensì soltanto un agitatore. (…).

Lasciai l’Alfa Romeo per dimostrare a quelli dell’Alfa Romeo chi io fossi: un proposito ambizioso, tale da rovinare un uomo ! Quando nel luglio ’51 Gonzales su Ferrari, per la prima volta nella storia dei nostri confronti diretti, si lasciò alle spalle la 158 e l’ intera squadra dell’Alfa, io piansi di gioia, ma mescolai alle lacrime di felicità anche lacrime di dolore, perché in quel giorno pensai: “Io ho ucciso mia madre”. E quando, poco dopo, Alberto Ascari con la medesima macchina mise in ginocchio lo stesso squadrone sul circuito del Nuerburgring, che disputava per la prima volta, e dando proprio in quell’occasione prova della sua incommensurabile classe, io dissi, facendo forza su me stesso, con amara pena: “È finita. Oggi l’Alfa Romeo ha iniziato quel ciclo agonisticamente discendente che fu già compiuto, fino alla rinuncia, dalla Fiat”. Io ero stato l’uomo che aveva portato all’Alfa i tecnici che le occorrevano per strappare alla Fiat la gloria delle corse. Quando lasciai l’Alfa portai via soltanto me stesso, fuorché l’amico Bazzi. Portai via me stesso ed ebbi la sensazione che l’ Alfa Romeo avrebbe sospeso le corse anche per colpa o merito mio. Così è avvenuto. Sono stato un protagonista, forse determinante, di due cicli clamorosi, quello della Fiat e quello dell’ Alfa, s’ intende nel settore dell’ automobilismo sportivo. Non mi dolgo di ciò che è accaduto, poiché ritengo che la mia attività si è tradotta in un modesto merito, in diversi tempi e in diverse proporzioni, nei confronti del mio paese e dei miei collaboratori, anche se il punto di partenza fu l’egoistico soddisfacimento di una mia ansia competitiva.”

Tazio Nuvolari

La seconda generazione di piloti cominciò con Alfieri Maserati, che doveva poi diventare un rinomato costruttore, e soprattutto coi duelli Nuvolari-Varzi, nei quali s’inseriscono dapprima Materassi, poi Fagioli, quindi Caracciola, Chiron, Biondetti, Dreyfus, mentre Nino Farina si profilava all’ orizzonte. In questo lungo periodo, chi emerse fu senza dubbio Tazio Nuvolari. Tuttavia egli trovò un degno avversario in quell’ Achille Varzi che lo superava in fredda perfezione di stile. I loro duelli nacquero proprio dall’ antinomia dei loro stili di guida, che erano in fondo anche due modi di concepire la vita: ecco perché suscitarono tanta passione e crearono intorno a sé le fazioni dei “nuvolariani” e dei “varziani”, non soltanto in Italia ma anche in mezza Europa.

In quel periodo avvenne anche il grande scontro fra l’ industria automobilistica italiana e quella tedesca. L’Alfa Romeo commise alla scuderia Ferrari, alla fine del 1932, dopo un’ annata trionfale, l’oneroso incarico di continuare l’attività agonistica. La nuova formula, che imponeva un peso massimo di 750 chilogrammi senza limitazioni di cilindrata, apriva ovviamente possibilità enormi all’industria metallurgica, che poteva per la prima volta tentare e proporre soluzioni all’avanguardia. Assistemmo così all’ adozione di nuovi materiali, di nuove leghe al magnesio, e al largo impiego dei cosiddetti acciai bianchi. E fu appunto così che la Mercedes e l’Auto Union poterono inserire in una vettura di 750 chili a secco dei motori di 6 litri di cilindrata e oltre, mentre noi eravamo rimasti ai 2,6 litri; solo in seguito la scuderia portò quel motore a 3 litri e poi a 3,2.

Il mio primo incontro con Nuvolari risale al 1924. Fu davanti alla basilica di Sant’Apollinare in Classe, sulla strada ravennate, dove avevamo messo i box per il secondo Circuito del Savio. Erano i tempi di Brambilla e Malinverni, di Materassi, di Balestrero, di Weber. Alla partenza, ricordo, non avevo dato troppo credito a quel magrolino, ma durante la corsa mi accorsi che era l’ unico concorrente capace di minacciare la mia marcia. Io ero sull’Alfa 3 litri, lui su una 1500 Chiribiri. E in quest’ordine tagliammo il traguardo. La medesima classifica si ripeté una settimana dopo al Circuito del Polesine. Così diventammo amici. Cinque anni dopo Tazio Nuvolari entrò nella scuderia Ferrari, della quale doveva divenire in breve il portabandiera. Già allora era quell’uomo spiccio e caustico che in seguito pochi amici poterono conoscere nell’intimo. Ricordo una Targa Florio, nel 1932, quella che doveva vedere un suo memorabile trionfo, permettendogli di stabilire un primato che soltanto vent’anni dopo, nel ’52, sarebbe stato superato.

Alla partenza da Modena, nel salutarlo, gli dissi che gli avevo fatto prendere il biglietto di andata e ritorno. Mi rispose: “Dicono tanti che sei un bravo amministratore, ma mi accorgo che non è vero. Dovevi farmi prendere solo il biglietto di andata, perché quando si parte per una corsa bisogna prevedere la possibilità di tornare in un baule di legno”. Mi aveva chiesto, per quella spedizione in Sicilia, un meccanico che pesasse poco, come lui, e magari anche meno. Si sa che la Targa Florio, come la Mille Miglia di allora, si doveva correre in coppia. Così gli presentai Paride Mambelli, un adolescente forlivese che mi aveva proposto Gigione Arcangeli. Tazio sogguardò il ragazzo, gli chiese seccamente se avesse paura di fare la corsa al suo fianco, infine lo consigliò di stare attento alle sue grida, ch’egli avrebbe lanciato ogni volta che gli toccasse d’abbordare una curva troppo forte, così da prevedere un’uscita di strada. A ogni grido, Paride avrebbe dovuto buttarsi sotto il cruscotto, perché la centina di sostegno potesse proteggerlo in caso di capovolgimento. Al loro ritorno da Palermo, chiesi a Paride com’era andata, ed egli candidamente rispose: “Nuvolari ha cominciato a gridare dalla prima curva e ha finito all’ ultima. Così sono rimasto rannicchiato di sotto per tutta la gara”.

Ma un altro episodio di Targa Florio mi ricorda un aspetto poco noto del grande campione: un Nuvolari patetico e imprevedibile. Era in allenamento con Campari, gli faceva da passeggero. A una curva trovarono un brecciolino gettato sul catrame fresco, slittarono e uscirono di strada. Campari fece in tempo a gettarsi fuori, Nuvolari precipitò con la macchina per una scarpata profonda una trentina di metri. Dopo il tonfo, un silenzio pauroso. Campari, illeso, si mise a gridare: “Tazio, Tazio !”, calandosi fra sassi e cespugli. Quel silenzio lo metteva in orgasmo. Arrivò giù fino in fondo, guardò nella macchina sconquassata: Tazio non c’ era. “Tazio, in dov’è che te set ?” gridò disperato. E l’omarino spuntò, finalmente, dall’erba medica, col dito sul labbro per imporgli il silenzio: “Zitto”, disse, “che c’è un nido di quaglie, e i quagliotti appena nati. Vieni a vedere”. Non aveva dimenticato di essere la più celebrata doppietta del suo paese (Castel d’Ario, Mantova, ndr). Nuvolari, a differenza di quasi tutti i piloti di ieri e di oggi, non ha mai sofferto per l’inferiorità del mezzo, non è mai partito battuto, ha sempre lottato leoninamente anche per il settimo, il decimo posto in classifica. Questa sua passione, questo suo orgoglio indomito furono compresi dalle folle, e da essi nacque il mito. Ma non solo il pubblico seppe apprezzare queste doti dell’uomo: il giorno in cui scomparve Rosemeyer, alfiere dell’ Auto Union, la casa germanica fece appello a Tazio per avere la certezza di riconfermare la propria supremazia. E Tazio dimostrò anche su quella macchina non ortodossa le sue possibilità di assimilatore, la sua superiore sensibilità. Ma non dimenticò di essere italiano: molti ricordano ancor oggi la sua maglietta di un giallo stinto, io ricordo soprattutto quel suo nastrino tricolore al collo, mai lasciato nella valigia.

Più volte mi sono sentito chiedere: ma che cosa aveva di speciale lo stile di guida di Nuvolari, che cosa aveva di diverso? Su questo famoso stile se ne sono dette e scritte di tutti i colori; succede del resto sempre così, quando un uomo arriva ai limiti dell’impossibile: si impadronisce di lui il mito, e allora, se faceva il pugilatore, si racconta che sapeva uccidere un toro con un pugno, e se faceva il pilota, che faceva le curve su due ruote. Anch’ io, dopo le prime gare combattute con lui, cominciai a chiedermi che cosa avesse di speciale lo stile di quell’ ometto smilzo e serio, il cui valore si rivelava di regola tanto più alto quanto maggiore era il numero di curve, che lui chiamava “risorse”, di un percorso. Così un giorno, alle prove sul Circuito delle Tre Province, nel 1931, gli chiesi di portarmi a fare un tratto sull’Alfa 1750 che la mia scuderia gli aveva affidato. Era la prima volta che Nuvolari veniva a quella corsa, ed era guardingo perché mi aveva visto al volante di un’Alfa di tipo nuovo, una 2300 otto cilindri, più potente della sua. Comunque non fece obbiezioni. “Sali”, mi disse. Alla prima curva ebbi la sensazione precisa che Tazio l’avesse presa sbagliata e che saremmo finiti nel fosso, mi sentii irrigidire nell’attesa dell’urto. Invece ci ritrovammo all’imbocco del rettilineo successivo con la macchina in linea. Lo guardai: il suo volto scabro era sereno, normale, non di chi è fortunosamente scampato a un testacoda.

Alla seconda e alla terza curva l’ impressione si ripeté. Alla quarta o alla quinta cominciai a capire: intanto, con l’occhio di traverso, avevo notato che per tutta la parabola Tazio non sollevava il piede dall’acceleratore, e che anzi lo teneva a tavoletta. E di curva in curva scoprii il suo segreto. Nuvolari abbordava la curva alquanto prima di quello che l’istinto di pilota avrebbe dettato a me. Ma l’ abbordava in un modo inconsueto, puntando cioè, d’un colpo, il muso della macchina contro il margine interno, proprio nel punto dove la curva aveva inizio. A piede schiacciato, naturalmente con la giusta marcia ingranata prima di quella sua spaventevole “puntata”, faceva così partire la macchina in dérapage sulle quattro ruote, sfruttando la spinta della forza centrifuga, tenendola in strada con la forza tangente delle ruote motrici. Per l’intero arco, il muso della macchina sbarbava la cordonatura interna, e quando la curva terminava e si apriva il rettifilo, la macchina si trovava già in posizione normale per proseguire diritta la corsa, senza necessità di correzioni. Ricordo che mi abituai ben presto a questo esercizio, vedendoglielo fare con tanta regolarità, ma ogni volta mi pareva di precipitare nel vagoncino di un ottovolante e di ritrovarmi fuori dal tuffo con quella specie di stupore che tutti abbiamo provato. La corsa, comunque, nonostante la mia macchina più potente, fu sua: lui primo e io secondo a 32″ e 9/10. Dopo l’ arrivo, Tazio mi disse: “Per batterti mi hai costretto a lavorare come fino a ora non avevo mai fatto”. E gli fece eco il suo meccanico, quel Decimo Compagnoni che sarebbe divenuto negli anni successivi un personaggio pressoché leggendario quale “meccanico di Nuvolari”. “E io”, dissi, “non mi sono preso mai tanta paura come oggi.” Quella manovra in curva era possibile, allora, per due ragioni principali: le ruote non erano, come oggi, indipendenti, e le gomme erano gonfiate a pressioni assai più alte. L’ incredibile dérapage poteva così venire determinato con una sola, calcolata sterzata iniziale. Nessuno, comunque, riuscì anche allora a riprodurre “la curva” di Tazio Nuvolari.

Molti si avvicinavano alla sua tecnica, provando e riprovando, ma nelle curve più dure finivano per sollevare il piede, telegrafando con l’ acceleratore: nessuno, ripeto, osava la “tavoletta” come Tazio. Probabilmente nessuno accoppiava come lui una così elevata sensibilità della macchina a un coraggio quasi disumano. Più tardi, quando le sospensioni si fecero indipendenti e i pneumatici si gonfiarono a pressioni medie, anche Nuvolari non poté più derapare in un modo tanto acrobatico. Tuttavia qualcosa gli rimase: continuò a puntare l’ interno della curva con la decisione di sempre, lasciandosi partire in dérapage, questa volta correggendo il volante con pochi colpi decisi, e non più schiacciando il piede sistematicamente a tavoletta. La sua tecnica rimase comunque fino all’ ultimo un prodigio insuperato dell’ istinto ai limiti delle possibilità umane e delle leggi fisiche. Tanto che, in quarant’ anni di corse, io l’ ho vista attuare da un solo altro pilota: Stirling Moss. Passarono gli anni e Tazio restò per me l’ amico, anche se ci vedevamo con minore frequenza.

Quando nel 1947 una macchina col mio nome iniziò l’ attività agonistica, venne e mi disse: “Ferrari, sono pronto”. Sempre Ferrari mi aveva chiamato, mai per nome. L’ ultimo nostro momento di comune passione fu in quella memorabile Mille Miglia del ‘ 48, quando Nuvolari travolse tutti quanti con un fantastico volo da Brescia giù e su fino a Reggio Emilia. Lo attendevo, per il rifornimento, a Villa Ospizio. La rottura del perno di una balestra lo privò di una luminosissima vittoria, che più di chiunque altro aveva sognato e meritato. Su un letto dell’ ospitale canonica gli dissi: “Coraggio Tazio, sarà per il prossimo anno”. Mi rispose: “Ferrari, giornate come queste, alla nostra età, non ne tornano molte; ricordatelo, e cerca di gustarle fino in fondo, se ci riesci”.

In queste parole, che forse erano un’ umile confessione, era nascosto il dramma di quell’uomo fatto d’un solo fascio di nervi, il dramma di un padre che aveva visto morire entrambi i suoi figli adorati e che invano aveva sperato di non dover attendere la morte in un letto. Era un solitario, un uomo amareggiato per la crudeltà con cui il destino lo aveva colpito negli affetti più profondi, tuttavia, e non suoni irriverente questa mia osservazione, non cessò mai dall’essere un sagace regista di se stesso. Pochi come lui conobbero la folla, capirono quello che la folla voleva, seppero alimentare il proprio mito. Ogni suo atto, ogni suo gesto era previsto e calcolato, pur negli spasmi di una vita di atleta lanciato agli estremi rischi. Arrivò fino al punto di stabilire, nel proprio testamento, il giro che la folla di visitatori delle sue spoglie mortali avrebbe dovuto compiere nel giardino della sua casa. Non appena mi giunse la notizia della sua fine partii per Mantova. Era un caldo pomeriggio d’ agosto: l’ 11 agosto 1953. Nella fretta, mi persi in un dedalo di strade sconosciute della città. Scesi di macchina, chiesi a un negozio di stagnino la via per villa Nuvolari. Ne uscì un anziano operaio, che prima di rispondermi fece un giro intorno alla macchina per leggere la targa. Capì, mi prese una mano e la strinse con calore. “Grazie d’essere venuto”, mi bisbigliò. “Come quello là non ne nasceranno più.”

Achille Varzi

Varzi era figlio di un industriale di Galliate. Anche lui, come Nuvolari, veniva dalla motocicletta. Nuvolari correva con l’ italiana Bianchi, Varzi con l’inglese Sunbeam, e già sulle due ruote aveva dimostrato d’ essere un pilota di classe straordinaria. La conferma di queste doti sull’ automobile fu rapidissima. Il pilota era come l’ uomo: intelligente, calcolatore, grintoso quando necessario, feroce nell’ approfittare della prima debolezza, del primo errore, del primo incidente dell’ avversario. Direi spietato. Mi viene alla memoria, in proposito, un episodio che ben pochi conobbero. Mancavano poche ore al via del Gran Premio di Montecarlo 1931, quando io arrivai dall’ Italia e trovai il mio collaboratore Bazzi pressoché distrutto dai capricci di Varzi. Il nostro Achille si dichiarava insoddisfatto della macchina e criticava soprattutto la posa di guida: aveva già fatto cambiare dai meccanici una decina di cuscini, ma non ne aveva trovato uno che gli consentisse una sistemazione di suo gradimento. Varzi chiese finalmente certi due cuscini, li soppesò, misurò la loro altezza e decise che, per arrivare alla perfezione, bisognava che fossero un poco più alti, ma non tanto da richiedere un terzo cuscino. Bazzi gli diede un’ occhiata e d’ improvviso lo invitò ad andare a prendersi un caffè: al suo ritorno, promise, avrebbe trovato la perfezione raggiunta. Appena Varzi si fu allontanato, Bazzi mi afferrò il Corriere della Sera che avevo in tasca, lo piegò in quattro, lo nascose sotto i cuscini. Varzi tornò poco dopo, provò la posizione: “Perfetto, sì”, mormorò, e ringraziò quasi commosso. Il giornale era a sei pagine, e praticamente non aveva fatto aumentare l’ altezza della posizione di guida di un centimetro. Sì, questa era un poco la sua caratteristica: testardo come pochi, se veniva convinto di una cosa era subito pronto a difenderla, a sposarla fino in fondo. Così fu per esempio alla Mille Miglia del ‘ 34. Io lo aspettavo a Imola, sulla via del ritorno. Avevo telefonato e avevo saputo che più a nord cominciava a piovere, le strade si stavano bagnando. Preparai per lui, dunque, un ricambio di gomme usate e ancorizzate. Quando arrivò, ed era in lotta con Nuvolari per il primo posto, scese dalla sua Alfa Romeo e guardò le ruote che i meccanici avevano fatto rotolare vicino alla macchina. “Che roba è ?” mi disse seccato. Si accese così una discussione, lì in mezzo alla strada, mentre i secondi correvano, tanto che io d’ un tratto sbottai: “Fai quello che vuoi”, gli dissi arrabbiato. Di colpo Varzi ammutolì, ci pensò un attimo, poi esclamò: “E va bene, se lo dici tu, dammi le ancorizzate”. Gliele montarono in un baleno. Innestò la marcia per partire e caddero le prime gocce di pioggia. Mi gridò: “Hai ragione ! Grazie !”. Trovò infatti la strada bagnata, e vinse.

Juan Manuel Fangio

Lo vidi per la prima volta nella primavera del 1949, all’ autodromo di Modena. C’ erano altri piloti, altre macchine. Lo osservai per un paio di giri, finii col tenergli gli occhi addosso. Aveva uno stile insolito: era forse l’ unico a uscire dalle curve senza sbarbare le balle di paglia all’ esterno. Questo argentino, mi dissi, è bravo sul serio: esce sparato, e resta nel bel mezzo della pista. Più tardi venne da me in scuderia. Era accompagnato da un funzionario dell’ Automobile club argentino e da un’ altra persona, e la conversazione fu abbastanza lunga: non proprio con lui, per la verità, giacché non disse più di dieci parole. A un certo punto, infatti, cominciai a guardarlo incuriosito: era un timido, un mediocre, un furbo? Non capii. Sfuggiva al mio sguardo, rispondeva a monosillabi con una strana vocetta d’ alluminio e lasciava subito che gli altri interloquissero per lui, mentre un costante, indefinibile sorrisetto strabico gli rendeva il volto impenetrabile. In quel primo incontro conclusi su di lui due cose: che entro un anno sarebbe diventato campione del mondo, e che come uomo avrei potuto conoscerlo soltanto in seguito, approfondendo i rapporti. Sbagliai, in fondo, due volte: diventò campione del mondo non nel 1950, ma due anni dopo la mia profezia; e quanto all’ uomo non riuscii a individuarlo che troppo tardi. Le nostre conversazioni, in seguito, non furono più fortunate di quella prima: i suoi occhi continuarono a evitare i miei, le mie domande continuarono a ricevere risposte enigmatiche da quella vocetta metallica, per lui parlò sempre chi di turno lo accompagnava. Manuel Fangio è così rimasto, per me, un personaggio indecifrabile. La sua statura agonistica era invece indiscutibile. Possedeva una visione della corsa decisamente superiore, e un equilibrio, una intelligenza agonistica, una sicurezza nella condotta di gara veramente singolari.

Ricordo un episodio, a questo proposito, che a me sembra forse il più significativo, anche se non certo il più clamoroso, della sua carriera di campione. Nel giugno 1949, Fangio corse il Gran Premio di Monza con una Ferrari che avevo ceduto all’ Equipo Argentino. Fin dall’ inizio Fangio fu in testa, seguito dalle Ferrari di Ascari, Villoresi, Bonetto e Cortese. Di giro in giro accumulò un discreto vantaggio, ma verso la fine della corsa rallentò, e gli inseguitori cominciarono ad avvicinarsi. Che cosa accadeva ? Il meccanico Bignami, che dopo essere stato a servizio di Nuvolari e di Varzi si era messo con lui, si impressionò, senza comprendere, e afferrò una ruota con la mazzuola di piombo accingendosi a far segno a Fangio di fermarsi per un rifornimento pretestuoso. Il bravo e compianto Bignami preferiva vedere il suo uomo capitolare per cause di forza maggiore piuttosto che essere raggiunto e superato dopo avere dominato la gara. Io ero ai box: erano ancora gli anni in cui andavo talvolta alle corse. E questa manovra del Bignami non mi era sfuggita. Ma non mi era sfuggita un’ altra cosa: lo sguardo fisso di Fangio sul cruscotto della vettura a ogni passaggio sul rettilineo davanti ai box. E avevo intuito: la temperatura dell’ olio doveva essere salita in modo preoccupante, Fangio temeva di sbiellare proprio nel finale e aveva così rallentato per riportare l’ olio a una temperatura accettabile. Intervenni, impedii a Bignami di mettere in atto il suo proposito. Ci furono momenti di sconcerto. Ancora un giro, e finalmente Fangio riprese la sua andatura e vinse. Bignami mi guardò, sorrise e corse dal suo padrone che rientrava dal giro d’ onore, levando felice le braccia. Poco dopo, Fangio mi confermò: l’ olio aveva raggiunto i 130 gradi. Tutto fu chiaro, dissi in seguito; anche i brontolii dei miei piloti, che giuravano che la vettura di Fangio era ancora più veloce della loro. Ma Manuel Fangio dimenticò questo e altro, e il giorno che si ritirò dalle corse, dopo avere vinto cinque volte il campionato mondiale, scrisse un libro di memorie in cui l’ autentico Fangio sarebbe affiorato. Vero è che per dire certe cose, per lanciare certe ingenue quanto temerarie accuse, a metà di questo libro si servì di una penna altrui. Era nel suo stile. Comunque io non raccolsi la provocazione: c’ era chi si serviva di Fangio, dopo di averlo servito, e il chiasso che sarebbe derivato da un mio intervento avrebbe fatto la maggior fortuna del libro, ciò che ovviamente era l’ obiettivo della sua manovra. Così tacqui. Parlo adesso. Nel 1956 Manuel Fangio corse per la Ferrari, nella squadra ufficiale. Era già tre volte campione del mondo. Disputò quindici gare arrivando due volte quarto, e ritirandosi tre volte. La stagione lo laureò campione del mondo per la quarta volta. Ma secondo le sue memorie, questo 1956 fu tutto un “giallo” in cui si mescolarono tradimenti, sabotaggi, inganni, macchinazioni le più allucinanti, tutto allo scopo di gettarlo nella polvere. L’ autore di tante perfide manovre ? Enzo Ferrari: cioè proprio chi lo aveva ingaggiato. Cominciamo dalla commedia dei sabotaggi. Alla Mille Miglia Fangio arriva quarto. Ai suoi lettori si giustifica così: ho fatto la corsa con l’ abitacolo della Ferrari mezzo allagato per gli spruzzi di pioggia che entravano attraverso due speciali fori praticati per il raffreddamento dei freni. E insinua: i tecnici della Ferrari avevano studiato apposta questi fori per giocare a me un tiro malvagio. Ovvero: i tecnici della Ferrari avevano saputo che il giorno della gara sarebbe piovuto, e avevano così predisposto la trappola, accuratamente studiando e provando, con pompe e getti d’ acqua artificiali, l’ esatto ingresso d’ acqua nel posto guida. Manca infine un particolare: quegli stessi diabolici fori non avevano impedito a Castellotti di trionfare. Secondo atto: Gran Premio del Belgio. Fangio è in testa, ma d’ un tratto la macchina cede. Scopre al box che il differenziale ha subito un surriscaldamento eccessivo, come da mancanza d’ olio. Va sulla pista, che misura quattordici chilometri, cerca le macchie d’ olio perduto: la pista è asciutta, pulita ! La conclusione immancabile: sabotaggio, non mi hanno messo l’ olio nel ponte. Naturalmente il campione del mondo non si chiede come possa avere compiuto ventun giri in testa alla muta, a pieno regime, prima della panne, senza olio nel ponte… C’è da aggiungere, e Fangio si guarda bene dal rivelarlo nel suo libro, che gli avevamo inviato da Maranello una monoposto nuova, apposta per lui. Ma egli, nel suo delirio di sospetti, non si era fidato, e aveva preteso, dopo averla provata, quella vecchia di Peter Collins. E Collins, sulla vettura destinata a Fangio e da lui rifiutata, vinse il Gran Premio.

Terzo atto, non meno ingegnoso, a Reims. Al trentanovesimo giro (tutto calcolato, come si vedrà), uno spruzzo di benzina lo investe al viso. Si ferma al box: nel tubicino del manometro di pressione del carburante si è aperto un forellino. La riparazione prende un minuto, Fangio arriva quarto in classifica. Non viene forse spontaneo pensare che l’ agopuntura nel tubicino sia stata eseguita apposta, e a tempo preordinato, sì da rivelarsi soltanto dopo metà gara, quando il recupero sarebbe stato impossibile, e calcolata in modo che lo schizzo colpisse esattamente in viso il pilota, tenendo naturalmente conto dei vortici d’ aria nell’ abitacolo ? A Manuel Fangio viene spontaneo. Non fa meraviglia se dopo avvenimenti del genere il campione del mondo va a farsi visitare da un neurologo, che lo trova affetto da “neurosi reattiva” dovuta a un “malessere emotivo ansioso”. Ma quale sarebbe la ragione per cui Enzo Ferrari, questo Metternich, e perché no questo Richelieu delle automobili, mira con tanta perfida astuzia a rovinare il suo miglior uomo di squadra, il campione del mondo ? Fangio non ha dubbi, e spiega così: Ferrari voleva anzitutto dimostrare che le sue macchine vincevano anche se al volante non sedeva il campione del mondo; in secondo luogo: egli desiderava che il titolo mondiale lo conquistasse Peter Collins, perché Collins significava mercato inglese, mentre quello argentino era allora chiuso alle importazioni. Ora, mentre trascuro di considerare le insinuazioni di sabotaggio machiavellico per la semplice ragione di non volermi coprire anch’ io di ridicolo, risponderò a Manuel Fangio sul secondo punto. Risponderò ricordando tre fatti, tre episodi. Nella medesima stagione 1956, Fangio vince il Gran Premio d’ Argentina perché Musso gli cede la sua Ferrari. Al Gran Premio di Monaco, lamentandosi delle sue sospensioni, prende la Ferrari di Collins e arriva secondo. Al Gran Premio di Monza prende ancora la Ferrari di Collins, che il giovane inglese gli dà spontaneamente nonostante si trovi al terzo posto, e conquista il titolo. Musso e Collins si sono sacrificati per lui, Manuel Fangio. E ovviamente con il mio consenso. Se Collins non gli avesse dato due volte la propria vettura, sarebbe matematicamente e meritatamente diventato lui, quell’ anno, campione del mondo. E Collins e Musso sono morti senza potere realizzare questo sogno. Ci vuole dunque tutto il suo coraggio per definirsi “reietto della Ferrari”, come Manuel Fangio dice di sé, dimenticando perfino il sacrificio dei suoi compagni di squadra. Che cosa debbo concludere ? Fangio è stato un grandissimo pilota, afflitto da una curiosa mania di persecuzione. Uno strano personaggio. Io ho dovuto rispondere qui alle sue insinuazioni, ma l’ ho fatto senza rancore, sorridendo. D’ altra parte tutto ciò non mi fa ombra nel giudizio sull’ uomo in macchina, sull’ uomo in corsa. Credo infatti che difficilmente potremo riavere un asso capace di tanta continuità nel successo. Fangio non ha mai sposato nessuna casa: conscio delle sue capacità, ha rincorso tutte le possibilità di pilotare sempre la vettura migliore del momento, e ci è riuscito, anteponendo il suo egoismo, legittimo e naturale, all’ affetto che ha legato invece altri grandi piloti alla vita di una marca nella buona e nella cattiva sorte. Ma ha sempre lottato non soltanto per il primo posto, bensì anche per le classifiche di coda, pur di portare la macchina al traguardo. E questo è il tratto di nobiltà che gli riconosco.

La mia opinione su Stirling Moss è abbastanza semplice: è l’ uomo che ho ripetutamente accostato a Nuvolari. Ha smania di correre, va forte su qualsiasi macchina, ha il gran pregio di giudicare una vettura soltanto attraverso il cronometro, cioè sul tempo che su un dato percorso essa gli consente di realizzare. Di Moss ho detto anche, una volta, che è un pilota che ha il senso dell’ incidente; e proprio in certe sue uscite di strada, come in certe uscite di strada di Nuvolari rimaste storiche, io ho trovato una analogia veramente curiosa per l’ epilogo, che non ha mai raggiunto la tragedia. L’ ultimo incidente, purtroppo, ha avuto conseguenze molto serie. Tra parentesi, è il caso di rilevare che una buona dose di colpa per queste conseguenze sta nella struttura delle macchine di oggi di Formula 1: la loro fragilità congenita fa sì che al minimo urto esse diventino delle gabbie che imprigionano il pilota, che spesso deve essere estratto con l’ aiuto della fiamma ossidrica o del seghetto. È la tecnica del peso, sempre più ridotto, che ha spinto taluni costruttori all’ esasperazione. Ritengo, comunque, che Moss tornerà alle corse. E se riprenderà, stiamo sicuri che non sarà stato l’ incidente a menomarne la indomita volontà di conquista. Se Moss infatti avesse anteposto il ragionamento alla passione, più di una volta si sarebbe già laureato campione del mondo, essendo il più degno di questo momento.

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