La lezione del giocoliere

Milano, semaforo di Viale Brianza, una domenica di dicembre. Quando si accende il rosso, un ragazzo vestito da ragazzo e non da clown invade la strada per mostrare quanto è bravo. Lancia in aria quattro palline e due birilli, sa di avere pochi secondi a disposizione. Ma quell’esercizio lo avrà fatto migliaia di volte, non può sbagliare. Invece sbaglia. Una pallina gli cade sull’asfalto, rotola sotto le ruote di una delle automobili in attesa del verde.
Tutti possono commettere un errore. È per questo, dice un proverbio giapponese, che c’è una gomma per ogni matita. Lui invece si ferma, avvilito. Raccoglie le sue cose, si toglie il cappello. Ma anziché rovesciarlo per chiedere l’elemosina d’ordinanza, lo fa roteare in segno di inchino. Chiede scusa, in silenzio, senza sorridere. Nessuna mancia questa volta, nemmeno la moneta che una donna dal finestrino della propria vettura gli stava allungando. «No, grazie, io errore…», dice il ragazzo in un italiano che zoppica un po’ meno del dispiacere che prova chi ha visto tutto.
Non c’è più tempo purtroppo per seguire questa piccola storia di strada, la vita soffia sulle cose belle, spinge via. Ma nello specchietto retrovisore c’è ancora modo di vederlo quel ragazzo, imbarazzato e serio, mentre si rifugia sullo spazio dello spartitraffico, a rimproverarsi da solo. E a esercitarsi di nuovo, senza platea, solo per se stesso.
Ammirazione, pietà, senso di inadeguatezza (la nostra), anche un pizzico di vergogna: difficile comprendere e descrivere cosa si prova quando qualcuno fa qualcosa di bello senza poterlo abbracciare, senza nemmeno potergli dire grazie. Che in questo caso sarebbe solo un modo per ammettere: ecco, questi sono i gesti che vorrei fare anch’io tutti i giorni, se il mio orgoglio me lo consentisse. Perché il giocoliere che ha rinunciato al compenso giudicandolo immeritato, e anziché fingere che non sia successo nulla si preoccupa di allenarsi per non sbagliare di nuovo, è una splendida metafora al contrario di quanto viviamo ogni ora.
Chi quel ragazzo è riuscito a seguirlo con lo sguardo in questo secondo tempo riparatore, non può che pensare quanto ci rendano fragili la rassegnazione e l’abitudine che ci assalgono ai piedi di un ostacolo, e ci lasciano lì. Inebetiti e incapaci di reagire. L’ultima risorsa in questi casi è solo lo stupore. Quello che ti monta dentro ammirando esempi diversi, che riconciliano con l’ottimismo e scaldano certezze che credevamo scomparse. In questi momenti capisci che non bisognerebbe mai stancarsi di provare almeno un attimo di sbalordimento di fronte a episodi minimi e sfuggenti, specie a quelli di grande umanità. Un giocoliere umile e perfezionista, in fondo è quello che ci servirebbe sempre: in casa, in ufficio, tra gli amici più cari, magari anche al governo. Un ragazzo che sa togliersi il cappello, un piccolo artista che, se sbaglia, cerca di rimediare e ci riprova fino a che non sa di essersi corretto, di aver imparato la lezione. Un carattere insomma, prima ancora che un fenomeno. Questo troppo spesso ci manca: personalità e schiena dritta, quella che ci dovrebbe spingere a piegarla per raccogliere i cocci dei nostri errori. E ad ammetterli quegli errori, senza travestirci da clown. Magari con un piccolo inchino.(avvenire.it)

 

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