Toro olè

No, non ho intenzione di parlare della squadra di calcio del Torino, rimasta nel mio cuore da quando un certo Gigi Meroni mi portava ai suoi allenamenti al Filadelfia a bordo di una stupenda Giulia spyder azzurra. L’olè del titolo è dedicato invece a un altro Toro, quello della Lamborghini, che per la terza volta consecutiva (assieme alla Ducati, all’Italdesign Giugiaro e VW Group Italia, sarà un caso…) ha ottenuto il ‘Top Employer Italia’, la certificazione assegnata tutti gli anni dal prestigioso ‘Top Employers Institute’ alle imprese con eccellenti ambienti di lavoro, alti standard di formazione e sviluppo, avanzate politiche di gestione delle risorse umane, opportunità di carriera, politiche retributive e cultura aziendale. In poche parole, uno dei migliori posti dove lavorare nel nostro Paese.

E siccome in questo posto ci ho lavorato anch’io, credo sia arrivato il momento di completare la serie dei miei racconti di vita nel mondo dell’automotive – che da qualche tempo ho affidato a questo blog – e di buttare giù una cinquantina di righe anche sulla mia (impegnativa) esperienza a Sant’Agata Bolognese, dove ho trascorso quasi sei anni della mia vita di pierre. Quelli più difficili, i primi del rilancio di questo glorioso marchio, dove – comunque – qualche bella soddisfazione me la sono tolta, tra tutte quel bel paginone del Giornale sui ‘Tipi Italiani’, di Stefano Lorenzetto, dedicato al presidente Giuseppe Greco.

Cosa mi rimane della Lambo? Sicuramente la passione, tipicamente emiliana, degli allora quasi mille dipendenti (ora sono un po’ di più e il loro numero salirà ancora grazie al nuovo Suv) di questo gioiello – nato dal desiderio di un certo Ferruccio, 100 anni dalla nascita proprio quest’anno, di fare un dispetto ad un certo Enzo – entrato nella grande famiglia del Gruppo Volkswagen (di cui il sottoscritto faceva già parte da un pezzo) poco prima del mio arrivo da quelle parti.

Mi è anche garbata, devo confessarlo, qualche scorrazzata al volante di una Diablo prima e di una Murcièlago o di una Gallardo poi (pianino, in verità) oppure al fianco di quello scavezzacollo di Moreno Conti, driver stampa un po’ troppo veloce per i miei gusti (ma d’altronde se non fosse così che driver sarebbe). Ricordo anche gli incontri con gli appassionati del Lamborghini Club Italia, letteralmente innamorati dello storico collaudatore Valentino Balboni, che ha avuto addirittura l’onore di dare il suo nome ad una versione speciale della Gallardo, e le preziose ‘lezioni di storia’ dell’amico Stefano Pasini, grande esperto della Casa del Toro.

Tante le avventure da ricordare, in particolare quelle belle sfilate con le supercar (storiche e oderne) per le vie di Sant’Agata con i colleghi della prima era, tra i quali ricordo con piacere Giorgio Gamberini (ora in Zagato) e Bernd Hoffmann (poi tornato alla casa-madre Audi). Ma è rimasta soprattutto nei miei pensieri quella notte trascorsa assieme ai colleghi della Ricerca e Sviluppo sulla pista di Nardò, per certificare i tre record internazionali di velocità ottenuti dall’erede di Valentino, il pilota collaudatore Giorgio Sanna (ora capo delle attività sportive), al volante di una Murcièlago strettamente di serie. Seguiti come sempre dall’amico Umberto Guizzardi, valente fotografo di Sant’Agata Bolognese, che nulla aveva da invidiare a molti dei suoi colleghi spediti in Emilia dalle riviste specializzate di tutte le parti del mondo. E che dire poi di quella mia pazza idea di far attaccare letteralmente a una parete del nuovo Museo Lamborghini (che continuo ancora a considerare una mia creatura) una Diablo arancione, opportunamente alleggerita del suo potente e pesante dodici cilindri, giunta ormai a fine produzione.

Non posso dimenticare, soprattutto, la simpatia con cui la stampa internazionale aveva accolto, nel lontanissimo 2001, il mio nuovo incarico: dai cordialissimi americani ai sempre gentilissimi giapponesi; dai tedeschi (sempre con i …piedi di piombo con loro, per via della nazionalità della nostra Capogruppo) ai cugini francesi sino agli esperti giornalisti inglesi. Insomma, se pur da sempre abituato a lavorare con la stampa italiana, con loro mi sono sentito subito a mio agio. E dovunque mi sia trovato – a Detroit come a Tokyo, in California o in Cina, a New York oppure a Francoforte, o a Parigi o nella vicina Ginevra – mi hanno fatto sempre sentire come a casa.

Peccato che tutto questo non sia bastato a trattenermi a Sant’Agata, che ho lasciato ormai una vita fa. Mi sarebbe piaciuto veder nascere, e magari provare, anche le nuove, splendide creature dei giorni d’oggi. Ma forse è stato meglio così, perchè la fine di questo complicato ma anche entusiasmante rapporto mi ha dato, a suo tempo, la possibilità di iniziarne un altro e di giocarmi una nuova, inedita ed interessante esperienza (quella fiorentina), ormai divenuta anch’essa un piacevole ricordo. Giusto giusto prima del GAME OVER finale.

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