Auto e Cinema. Bianco, Rosso e Verdone: la 131, l’Alfasud e la 1100 D

I colori della nostra bandiera. Tre auto italiane. Le vicende dei proprietari, attraverso l’Italia, per andare a votare. E’ il succo di “Bianco, Rosso e Verdone”, (1981), seconda regia di Carlo Verdone. L’attore fa il bis della sua opera prima “Un sacco bello” (1980) dove, da mattatore, interpreta ben 6 personaggi. Questo schema narrativo, visto il successo di botteghino, è riproposto in “Bianco, Rosso e Verdone”, prodotto da Sergio Leone, dimezzando i personaggi, associandoli alle auto del titolo.

La bianca Fiat 131 Panorama, nuova di trinca, è di Furio, avvocato capitolino impiegato a Torino. La rossa Alfasud 1.2 prima serie è dell’emigrato in Germania, il materano Di Amitrano. La verde, col tetto bianco però, 1100 D è di Mimmo, romano, che va a prendere la nonna a Verona. Tre auto, dunque, le cui tinte sono, se affiancate, quelle del tricolore.

Il film, rivisto oggi, è ancora godibile. Questo avvalora il gradimento di pubblico che ottenne quando uscì nelle sale. Un successo dovuto non solo al camaleontismo di Verdone ma anche al cast in cui spiccano Elena Fabrizi, più nota come Sora Lella, che interpreta Teresa, la nonna del “pupone” Mimmo, Mario Brega, camionista romano, detto “er principe” e Milena Vukotic nell’inconsueta, per lei, parte di una prostituta.

Tratto d’unione tra i protagonisti il voler votare, assolvendo così il proprio diritto/dovere di cittadini. Ma l’impegno si risolve con esiti imprevisti per ciascuno di loro. Tramite filmico il viaggio che si compie, in massima parte in autostrada che risulta, per tutti, anonima e senza agganci col paesaggio. Sono le storie dei tre, il loro essere persone, con pregi e difetti, ansie e paure, la spina dorsale del film che, oltre a raggiungere l’obiettivo di far serenamente ridere il pubblico, e mai con volgarità, esprime già quella delicatezza affettuoso/malinconica verso le persone che Verdone riproporrà sempre con garbo nelle sue opere successive.

Per questo, piuttosto di descrivere la trama, preferisco ricordare il profilo dei personaggi. Il più riuscito è Di Amitrano. Perché Verdone pare voglia rendere omaggio a quel grande del film mimico che fu Jacques Tatì che sapeva far ridere senza pronunciare parole. Infatti, l’immigrato lucano non “profferisce verbo” durante il suo viaggio, salvo sbottare, infine, al seggio, dopo aver votato, in un dialetto ormai incomprensibile anche ai compaesani. L’unica cosa che s’intende è il sigillo finale del suo sfasato dire: manda a “quel paese” tutti quanti. Di Amitrano, insomma, è uno spaesato, nel senso letterale del termine: la sua italianità in terra tedesca è rappresentata da un poster di Causio che campeggia dietro la testiera del suo letto e la sua Alfa Sud “rosso alfa”. Ma sua moglie è una bionda frau tedesca che, per colazione, gli propone un piattone di wuberoni e crauti. A una stazione di servizio in Italia incrocia un gruppo di turisti tedeschi. Lui, curioso e impiccione, ascolta quel che si dicono: ride, infine, delle loro battute. Ma i teutonici, esterrefatti, lo guardano, perplessi. Per loro, è un italiano in tutto: dalle scarpe bianche ai riccioli mori in testa e alla maglietta tirata sul petto che scopre la pancia. Ma la sua tragedia è un’altra. Il progressivo sfaldarsi della sua cara Alfasud che, km dopo km, viene a ogni sosta, via via, cannibalizzata da invisibili ladri che, in più, lo derubano anche quanto lui compra di tutto, con dabbenaggine, negli autogrill. Alla fine l’Alfa si blocca, ormai priva di borchie, cristallo anteriore, sedile guida e benzina: Di Amitrano, rassegnato, la abbandona. Il calvario è iniziato appena varcato il confine. L’emigrante per festeggiare il ritorno in Patria, ascolta un nastro di Claudio Villa che canta “Binario”. Mentre il reuccio si sgola, l’emigrante si ferma in un cantiere sull’autostrada per bere da un tubo. Poi musica e voce cessano di colpo. L’uomo torna nell’auto. Si accorge che gli hanno barbato il mangiacassette. Si guarda attorno. Il suo sguardo cade su un cartellone che recita “Benvenuti in Italia”. E’ il primo dei tanti furti che subirà.

Prima di passare agli altri due personaggi del film tratteggio la storia dell’Alfasud. Perché non fu solo un’automobile ma, già dal suo nome, anche un simbolo. E questo spiega, se vogliamo, il perché sia proprio questa nel film la compagna di Di Amitrano.

Quel “Sud” stava a indicare la realizzazione di un’idea ambiziosa: produrre auto in uno stabilimento nel Meridione d’Italia. L’epoca è la fine degli anni ’60 del ‘900.

Nel 1967 la responsabilità tecnica, sia del progetto della fabbrica (sarà poi quella di Pomigliano d’Arco) sia della vettura, è affidata da Giuseppe Luraghi, allora presidente Alfa Romeo, azienda che faceva capo all’IRI, a Rudolf Hruska, ingegnere viennese, di grande capacità tecnica e notevole esperienza organizzativa. Lo studio della carrozzeria è assegnato a Giorgetto Giugiaro e Aldo Mantovani. La vettura, in anteprima, è esposta, al Salone dell’Auto di Torino del 1971. Sul mercato arriva nel giugno 1972. L’Alfasud è una berlina di fascia medio bassa, due volumi, quattro porte, spaziosa il giusto, dalla linea armonica e filante. E’a trazione anteriore. I freni sono a disco. Il motore è una novità. E’ un brillante 4 cilindri boxer di 1186 cc di 63 cv, che riesce a spingere l’Alfasud sino a oltre 150 km/h, garantendo pure spunti di buon livello che si associano a una sicura guidabilità. Il primo prezzo di listino è di 1.420.000 lire. Inizia così una dignitosa carriera che si protrarrà sino al 1984 attraverso tre serie e un’articolazione di versioni della berlina con carrozzerie più curate, allestimenti interni impreziositi e prestazioni via via aumentate. Sul mercato, inoltre, fu proposta un’interessante, ma non compresa dal mercato, versione Giardinetta e il grintoso coupé Sprint, disegnato da Giugiaro, rimasto poi in produzione sino al 1989. Da ricordare infine che l’Alfasud, prodotta in poco più di 1 milione di esemplari, è l’Alfa Romeo più venduta di sempre.

Torniamo al film. Quasi fosse un bilanciamento voluto la figura del secondo personaggio, Furio, è l’opposto del taciturno Di Amitrano. Infatti, è un avvocato logorroico-ansioso che programma tutto, stila tabelle, si prodiga in fastidiose precisazioni, distinguo, precauzioni. Sua vittima principale la moglie Madga (Irina Sanpiter) che scandisce il loro sofferto rapporto rifugiandosi in luoghi appartati dicendo sottovoce “ Non ce la faccio più!” con esagerato accento piemontese. La coppia ha due figli piccini anche loro succubi del padre e, quindi, pure loro a bordo della 131 Panorama. Tutto procede più o meno bene fino a quando all’auto si buca una gomma. Furio si allontana per trovare una colonnina SOS. La donna rimasta sola è raggiunta da Raoul (Angelo Infanti), aitante uomo, a bordo di un Maggiolino cabriolet blu che lei aveva intravisto, poco prima, rimanendone turbata, all’Autogrill. Raoul con fare mieloso le cambia al volo il pneumatico e riparte. Torna Furio e si arrabbia: infine decide di smontare la gomma di scorta e di rimontare quella bucata per non fare brutta figura col Soccorso ACI. La situazione esplode quando l’avvocato comunica alla famiglia che la 131 ha finito il rodaggio: può, finalmente, andare più veloce. Pigia sull’acceleratore. Tenta il sorpasso in galleria di un camion, ma non ci riesce. Sbanda. L’impatto è inevitabile. Diverse auto si tamponano. Furio sviene. Poi si riprende e, insieme a tanti altri, compreso l’uomo del Maggiolino cabriolet, è portato in ospedale dove è costretto dai medici a una notte di degenza. Magda trova un albergo dove pernotta pure Raoul. Nella notte la scintilla di passione tra lui e Magda scoppia. Ma, sul più bello, la donna è chiamata al telefono da Furio. Il giorno dopo la 131 riparte, seppur bollata, per Roma. Arriva al seggio. Furio, ovvio, non vuole far rimanere i bambini soli in auto. Decide di lasciare con loro Magda mentre lui vota. La donna acconsente anche perché, chissà come, dietro di lei vede apparire il Maggiolino cabriolet di Raoul. Quando Furio torna trova solo i due figli ma non la moglie. Disperato, urlando “Magda, Magda”, tenendo per mano i bambini, si mette a correre alla sua ricerca in una piazza vuota e assolata senza una meta.

Del tutto diversa la vicenda di Mimmo e la nonna. Così come l’esito della storia di Furio appare tranciante e liberatorio per Magda, quella del duo Verdone-Sora Lella è tenero e melanconico e commuove i cuori più sensibili. Mimmo è un imbranato. E’ salito al nord per l’affetto profondo che lo lega alla nonna. Ma è un confusionario svagato. Infatti, sbaglia tragitto. Invece di andare a Verona si confonde e va a Vicenza. Arriva in ritardo e la nonna smania.

Se nelle altre due parti del film Verdone è solo, qui ha un suo prezioso contraltare in Elena Fabrizi che recita quel che è nella vita: una donna romana intelligente, attenta e ironica, affettuosa e materna, pronta allo scherzo che considera e tratta ancora il suo cresciuto nipote come un “fijetto”.

Insieme ne fanno di tutti colori. Come lo smontare il sedile anteriore della 1100 D, per far star più comoda l’anziana nell’abitacolo, e legarlo poi sul portapacchi della vettura o l’accorgersi di aver lasciato le sue medicine proprio su di questo solo dopo averne comprato, a caro prezzo, altre.

Ma la sequenza più delicata e toccante di tutto il film è quella in cui la nonna desidera rendere omaggio a una persona sepolta in un piccolo cimitero lungo la strada verso Roma. Il nipote acconsente, brontolando. Comprano pure i fiori. Però, giunti sul posto, l’anziana non ricorda più il nome del defunto. Inizia così un itinerario tra pietà e memoria per gli scomparsi che qui riposano. Alla fine nonna e nipote, in serenità affettuosa e complice, decidono di deporre i fiori a caso volendo così rendere omaggio a tutti i sepolti del luogo. Poi la coppia, arriva a Roma, al seggio, dove la storia si chiude con accorata tristezza. Spiace davvero che finisca così.

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