I settant’anni di Porsche

La storia la fanno i numeri. Per l’automobile contano anche altri fattori: tecnologia, forma, prestazioni, sicurezza, qualità. Non per tutti i costruttori: i pochi che sono passati alla storia, hanno costruito modelli con lunga durata nel tempo e dal grande fascino, spesso rafforzato da successi sportivi. Alcuni marchi, e Porsche è tra questi, hanno aggiunto qualcosa in più: immaginazione e capacità di osare, guardando sempre avanti

Correva l’anno 1948, il giorno 8 del mese di giugno di settant’anni fa, nasceva la prima Porsche. Nome entrato nella storia e che può vantare numeri in ogni settore. Che non vogliamo riportare qui: tra cronologie e liste di modelli, date e dati, si sono già impegnati molti nell’elencarli. Eppure, ci sono anche altri elementi che intervengono nel considerare la storia: per esempio, la geografia. Abbiamo atteso il momento, in vacanza nel cuore dell’Europa, per passare da una cittadina ai confini settentrionali della Repubblica Ceca: in Boemia, nella provincia di Liberec, si trova Vratislavice nad Nisou. Nota a pochi con l’attuale nome, all’epoca dell’Impero Austro-Ungarico, si chiamava Maffersdorf: così qualcuno la ricorda, magari, come luogo di nascita di Ferdinand Porsche, il lontano 3 settembre 1875. Dal paesaggio al carattere degli abitanti, si nota una certa asprezza: temprati dal lavoro duro, rispettosi delle regole, attaccati ai valori fondamentali della vita e senza perdere di vista la semplicità. Un po’ come i montanari di tanti altri luoghi di un continente che, con il passare del tempo, hanno mutato confini, lingue e preponderanze etniche; spesso forzatamente, in funzione dei complessi eventi del secolo scorso. Ma capaci di sognare.

Scrivendo dell’anniversario di una Casa automobilistica, è facile confondere elementi come marchio, simbolo e prodotti: meglio puntualizzare alcuni passaggi. La fondazione di Porsche risale al 25 aprile 1931, come studio di consulenza e progettazione, mentre la data della prima vettura con tale nome – nota come Numero 1 – è stata anticipata in apertura. Invece il simbolo che identifica i modelli, lo scudetto con i simboli della città di Stoccarda e del Baden-Württemberg, arrivò solo nel 1953 su richiesta dell’importatore americano Max Hoffman: si narra che, a tavola con Ferry Porsche, questi lo abbozzò al momento sul tovagliolo.

Ancora un po’ di geografia: la Casa automobilistica è identificata con Stoccarda, per l’esattezza a Zuffenhausen, ma già durante la guerra, la famiglia Porsche si trasferì a Gmünd, tornando alla natia Austria; Ferdinand aveva studiato e lavorato a Vienna nei primi due decenni del XX secolo.

Noi, rientrando dalla Boemia, ripassiamo sempre volentieri dalla località tra i monti della Carinzia: non solo per la gradevolezza del paesaggio, è interessante vedere i fabbricati originali dove vide la luce la Numero 1 e furono costruiti i successivi cinquantadue esemplari della Porsche 356 (135 km/h con soli 35 cavalli, giusto per capire quanto fosse avanti), cominciando nel luglio 1948 con il numero di telaio 356.001, mentre le serie a seguire nacquero a Zuffenhausen, arrivando a oltre 78mila vetture fino al 1966. Ma non è ancora il momento di abbandonare Gmünd: la visita al Museo Porsche, creato dall’entusiasmo di Helmut Pfeifhofer (www.auto-museum.at), è un’immersione nel fascino e nella storia di un marchio che, a questo punto è indispensabile ricordarlo, suscita sempiterna passione.

E qui centriamo un punto focale della storia del marchio: la passione che nel tempo ha trasformato molti possessori, anche occasionali, in “porschisti”. Quali gli elementi che fanno scattare la molla? Troppo facile alludere alla desiderabilità dei vari modelli: se può essere stato vero con le 356, belle e formose, audaci nelle prestazioni e semplici nella manutenzione (sotto sotto, c’era il concetto Volkswagen Maggiolino, altra grande idea di Ferdinand Porsche). Discorso analogo anche per le 911, sportive prodotte più a lungo di qualsiasi altra: dal 1963 una genealogia sempre evoluta eppure immancabilmente riconosciuta come tale, serie dopo serie fino alla prossima generazione, attesa per fine anno. In apparenza è più difficile giustificare la passione per modelli che, nel tempo, non hanno avuto lo stesso fascino; nemmeno oggi, diventate vetture (quasi) di massa: pensiamo a Cayenne o Macan, Boxster o Panamera. Tutte indifferentemente trasformate dalla magia del marchio in oggetti del desiderio, e con un fortissimo senso di appartenenza. Il medesimo che anni addietro, colpì i possessori di Porsche meno diffuse, alcune persino poco riconosciute come tali (c’è sempre, anche nelle migliori famiglie, il rampollo non troppo nobile). Pensiamo alle 914 (note come Volkswagen Porsche), alla 924 e la successiva 944, o a modelli poco conosciuti come la ricca e per l’epoca stravagante 928 – creata quando si pensava che la 911 avrebbe presto esaurito il potenziale di sviluppo e, soprattutto, di richiesta da parte del mercato – o come le 968 Coupé e Cabrio. Tutte vetture indistintamente amate, che hanno convertito chi le abbia guidate in persone contagiate dalla “passione Porsche”.

Ma una ricorrenza così importante, settant’anni di un costruttore nato con un solo modello, non può essere spiegata solo con la passione. Sulle vetture Porsche se ne sono sentite tante, alcune vere, verissime, altre mitizzate o fantasiose: vediamo di comprendere le ragioni di un simile successo. Cominciando con elencare le più note (alcune anche trite), come “le vetture che la domenica corrono in pista e con le quali il lunedì si può usarle per andare al lavoro”: vero, anche se in quegli anni lo dicevano spesso per le Fiat 600, magari con marmitta Abarth, ma non era la stessa cosa. Affermazione trasformata nel tempo, con le 911 che aumentavano di potenza e prestazioni a ogni generazione, in “supercar guidabili anche quotidianamente”: vero, specie quando le “altre belve” erano scontrose, e rientravano addirittura in fabbrica per i tagliandi e profonde revisioni, quando le Porsche non soffrivano persino nel traffico urbano. “Sono facili da guidare, anche sportivamente”: vero a metà, dipende molto da serie e modello; pensando a vetture come le 930 (prime versioni di 911 Turbo) i guidatori potevano fregiarsi del titolo di “domatori”. E anche diverse serie a seguire, senza assetto mirato e una elevata capacità di guida erano “sovramotorizzate” (dall’inglese over-engined) rispetto al pianale, almeno fino alla serie 964, l’ultima con i fari “verticali”, per identificarla rapidamente. Tornando a tale considerazione, andrebbe precisata con una diversa espressione, oltretutto applicabile a molte altre serie, anche recenti e attuali: difficile smentire che le Porsche, per carattere e progetto, costruzione ed esperienze in corsa, permettano a guidatori normali di avvicinarsi a limiti non raggiungibili così facilmente con altre vetture, e ai piloti di superarli – in gara – con innegabile semplicità. Al di là dell’età romantica, pensiamo alle potenze medie della gamma attuale, con prestazioni oltre i 300 km/h per tutte le 911, per esempio.

Cos’hanno, in fin dei conti, le Porsche di diverso da tutte, ma proprio tutte, le altre? Ancora un momento di pazienza, per capire la genesi di tale differenza: Porsche è un costruttore che per settant’anni ha guardato avanti, trasformando i sogni in realtà, correndo e vincendo ovunque e più di qualsiasi concorrente, innovando senza limiti di fantasia, osando anche l’inosabile. Pensiamo alla purezza del marchio costruendo sport utility, berline e persino station wagon, alcune addirittura a gasolio: con enormi successi di vendite. Senza mai tradire la qualità, le finiture, le linee, l’immagine sportiva e di lusso, il rigore costruttivo e l’attenzione alla tradizione. Addirittura con un’auto completamente elettrica e con possibilità elevate di guida autonoma, come Taycan: sportiva e seducente berlina futuribile, prossimamente in vendita.

Ma è giunto il momento di svelare la ragione del plusvalore di ogni Porsche: tutte, nessuna esclusa, forniscono come ci si mette al volante un insieme di sensazioni non riscontrabili altrove. Troppo facile il riferimento all’inserimento della chiave a sinistra (si riconoscerebbe una Porsche anche bendati): memoria della partenza a Le Mans quando i piloti attraversavano la pista di corsa per infilarsi nell’abitacolo, avviando il motore con la mano sinistra per avere la destra libera per il contemporaneo inserimento della prima marcia.

Le sensazioni Porsche cominciano già con la posizione di guida, poi con i primi metri di percorrenza per la risposta di tutti i comandi (non sembra, ma è così), con il coinvolgimento prestazionale che aumenta chilometro dopo chilometro, come la confidenza che cresce esponenzialmente, sentendosi tutt’uno con la vettura. Lo dicono in molti, si sa, ma non è la stessa cosa, credeteci. Perché Porsche in questi ultimi settant’anni ha confermato una regola, che personalmente consideriamo valida anche per i prossimi decenni: solo chi corre guardando molto in avanti, senza perdere di vista la propria tradizione può farcela. Anche perché l’elenco dei brevetti registrati da Porsche nel tempo è forse più lungo dei successi nelle competizioni.

PorscheNumero1-Ferdinand-e-Ferry-Porsche-8-giugno-1948

2 commenti
  1. Ernesto
    Ernesto dice:

    Condivido totalmente.
    Ho acquistato la prima Porsche nel 1960, una 356 A usata, quando ancora i rari porschisti si salutavano incrociando con due flash dei fari, ovunque fossero.
    Dopo sono state tante le mie Porsche ma nel frattempo mi è stato facile trasmettere la passione a mio figlio divenuto un fedele cultore della cavalla di Stoccarda. Sono stato naturalmente non una sola volta in pellegrinaggio a Gmund e pur perfettamente d’accordo sulla non omologabilità de “la Porsche” ovvero la 911 con qualsiasi altra sportiva presente nel mondo trovo ancora oggi a 83 anni che sono impagabili le sensazioni che la mia 993 acquistata 24 anni fa s’à ancora darmi.
    Emanuele Marcianò

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