L’automobile nel cinema (seconda parte)

https://autologia.net/lautomobile-nel-cinema-parte/

A un altro festival, France Cinema, attivo per un trentennio a Firenze, furono più volte presentati i films dedicati alle “Crociere” ed alle fabbriche Citroen, “guardate” queste ultime con occhio “diverso” in momenti particolari della loro storia.
Si trattava di maturi e complessi esempi di “qualcosa” nato negli stessi anni del cinema di finzione, se non addirittura ad esso precedente, fregiandosi del nome di cinema di “vita vissuta”, di “vedute”. Terminologia dal sapore un po’ archeologico, ma che conteneva già tutto un futuro di discussioni teoriche e polemiche, come racconta dottamente il critico e docente Adriano Apra’. Senza contare che la produzione di questo cinema fu, già negli Anni Dieci del ‘900, addirittura più ampia di quella del cinema di finzione.
Chilometri di pellicola conservati negli archivi di tutto il mondo furono il brodo di coltura di quello che sarebbe stato il “documentario”: e un bel po’ di quei chilometri furono dedicati al cinema industriale, sottogenere che andò a collocarsi tra il futuro documentario e la promozione, lungo confini spesso labili. Trovò anche spazio, nei programmi di spettacolo delle origini, accanto al film di finzione e poi ai cinegiornali ed ai primi films di viaggio o turistici tout-court, per i quali i Lumières furono antesignani, mentre in Italia fu il milanese Luca Comerio, negli anni dieci, a dedicarsi all’antenato del documentario esotico.
L’industria e in particolare, ovviamente, quella automobilistica, utilizzò la settima arte per raccontare se stessa e costruire una percezione di sé che si andò creando e consolidando mentre veniva raccontata. Il modello produttivo della fabbrica fordista, i suoi processi e i suoi prodotti, insieme alle sue glorie appena ce ne furono, penetrarono anche per questa via nella vita economica e culturale, nel costume e nella vita quotidiana. Adempiendo al compito di divulgazione del verbo tecnico e scientifico e di formazione di un “clima” favorevole all’industria (ed all’automobile).
Nel 1911 Luca Comerio, dopo aver filmato l’”impresa” coloniale in Libia, girò “Gli stabilimenti Fiat di Corso Dante”, illustrando i reparti di produzione e le prove su strada delle “Tipo” dell’epoca, con la macchina che scorreva nei reparti, sui visi fieri e baffuti degli operai e sul loro sciamare all’uscita di mezzogiorno.
Senza dubbio lo stile di questa e altre opere è ancora soltanto descrittivo, mentre il cinema di finzione coevo obbedisce ormai a precise regole di ritmo e montaggio. Con la Grande Guerra e i primi Anni ’20 lo stile e i contenuti avrebbero ricevuto nuovi impulsi.
L’efficientissima fabbrica di shrapnels e affini che Andrè Citroen creò nello stesso impianto dove nel ’19 sarebbe nata la sua Tipo A, non fu solo un esempio di meccanizzazione e organizzazione tayloristica del lavoro ma un esercizio di relazioni interne ed esterne in cui il cinema giocò il suo ruolo.
Oltre ai servizi a disposizione di operaie (la metà delle maestranze) e operai – dalla nursery al gabinetto dentistico – ogni sabato sera, nella sala mensa che poteva accogliere quattromila persone, si organizzarono proiezioni cinematografiche. Lì, i dipendenti della Javel “militare” assistettero alle avventure di Fantomas e Charlot, si innamorarono di Mary Pickford e si commossero ai films patriottici, seguendo i servizi del cinegiornale Pathè (che operava dal 1909), compresi quelli dedicati alla loro stessa fabbrica. Citroen aveva infatti aperto le porte alla Pathè films con l’obiettivo della motivazione interna, accanto a quello di raggiungere i suoi referenti tra gli alti gradi dell’esercito, la burocrazia ministeriale, i politici, i fornitori – e naturalmente il grande pubblico. Non a caso, la divisione propaganda che egli creò all’inizio degli anni ’20 avrebbe contemplato da subito un cinegiornale realizzato in proprio.
Il cinema di guerra, con le sue immagini “motivanti” dei films proiettati a Javel, immagini selezionate dagli autori e dai loro committenti, preparò certamente il cinema di propaganda tra le due guerre: gli autori – che si fanno avanti – furono spesso gli stessi. Sarà il caso, come vedremo, di Leon Poirier in Francia e di Comerio stesso in Italia, che da direttore della Sezione Cinematografia dell’esercito raccolse molto materiale utilizzato per varie pellicole durante il Ventennio, concorrendo a creare la “narrazione” che il fascismo diede di se stesso e di cui la guerra fu elemento essenziale.
Il cinema degli Anni ’20 è ancora muto, ma il cinema di finzione produce capolavori, con Chaplin,
von Stroheim, Murnau, Lang, Eisenstein…
Comincia qui un’influenza (reciproca, in prospettiva) che per quanto riguarda tutta la galassia del cinema di non-finzione segna il passaggio dal “puro sguardo” alla narrazione, affidata al montaggio ed alle didascalie. Per tradizione, segnala Aprà, l’atto di nascita del “documentario” è collocato nel mondo del film di esplorazione, nato da quel film di viaggio o turistico degli Anni Dieci di cui si diceva e affiancato ora dal cinema di alpinismo. Nel 1922 Robert Flaherty presenta infatti “Nanouk”, costruito a partire dal materiale sui suoi viaggi tra gli Eskimo, con uno sponsor oggi politicamente scorrettissimo, la compagnia di pellicce Revillon Frères…Per la verità il termine “documentario” fu usato solo nel ’26 da John Grierson, cineasta e produttore, recensendo “L’ultimo Eden” sempre di Flaherty: Grierson pose immediatamente il problema del rapporto tra valore documentario ed estetico e quindi il problema di una supposta realtà “resa senza mediazioni”, da inseguire nel documentario, in opposizione alla realtà manipolata dal regista del film di finzione…In realtà, nota Apra’, ciò che la macchina riprende e’ comunque selezionato, una narrazione e’ implicita: senza contare montaggio, post-produzione e, a partire dall’avvento del sonoro, microfoni, missaggio, amplificatori etc. Insomma, gli ingredienti della polemica c’erano tutti, elevati al cubo nel caso del cinema industriale, con la presenza cosi’ evidente e ingombrante del committente. Senza contare, su tutt’altro versante, gli autori (come Vertov con il suo “Kinoglaz” futurista e marxista) che imboccano la via della sperimentazione e delle contaminazioni con l’avanguardia….
Esempi di questo intreccio sono i films sulle “Crociere” degli autocingolati Citroen in Africa (1924-25) e in Cina (1931-32): le date li collocano nel pieno della fioritura del documentario e delle mode culturali del momento, spesso collegate agli interessi coloniali francesi ed a diatribe motoristico-militari sulla superiorità dell’aereo o dell’auto nell’attraversamento delle aree desertiche. Citroen cavalcò mode, diatribe ed esigenze politico-militari organizzando nel ’22 la traversata del Sahara con i suoi autocingolati: tre anni dopo con la Crociera Nera collego’ le colonie francesi del Nord Africa a quelle dell’Africa Orientale ed al Madagascar. Nel ’22, delle riprese cinematografiche si occupò Paul Castelnau, per l’occasione operatore, ma in realtà geografo. Ma per la Crociera Nera furono ingaggiati professionisti: due degli otto cingolati ospitavano infatti Leon Poirier, che aveva al suo attivo già una decina di pellicole e George Specht, già operatore nella troupe che aveva girato “L’Atlantide”, un kolossal esotico, nei luoghi in cui era ambientato il romanzo originario. I due avrebbero in seguito dichiarato – a proposito delle teorie di Grierson – di essere partiti “con l’idea di non fare del cinema documentario, il che troppo spesso significa cinema noioso, ma per fare cinema tout-court”….Comunque: armati di tre macchine da presa (una al rallentatore), tre apparecchi fotografici 13×18 ed una Kodak per istantanee, riportarono ventisettemila metri di girato e cinquemila fotografie, che andarono ad aggiungersi alle decine di dipinti, schizzi e disegni del pittore Iacovleff, alle centinaia di campionature di animali e insetti eseguite dai naturalisti al seguito e naturalmente alle mappe dei geografi. Il montaggio del film, ultimato nel ’26 da Poirier, andò di conserva con la preparazione di un docu-dramma dedicato alla battaglia di Verdun, girato nei luoghi dei combattimenti utilizzando due attori professionisti e molti ex-combattenti francesi e tedeschi. La memoria di Poirier è legata a quest’opera ed alla “Crociera Nera”, girate con “realismo poetico” ed una fotografia ispirata a canoni pittorici. E con buonapace di Grierson, evidentemente…Non mancarono d’altronde le accuse di colonialismo, all’epoca e soprattutto nel secondo dopoguerra, per l’ambiguo atteggiamento di Poirier verso il governo collaborazionista di Petain…Citroen naturalmente tirò dritto. Il film ebbe la prima all’Opèra di Parigi, presente il presidente della Repubblica e tutti i vip dell’epoca: sarebbe poi stato proiettato in permanenza al Magazin de l’Europe, il gigantesco palazzo di esposizione che ospitò anche gli autocingolati ed i diorama che mettevano in scena episodi e protagonisti dell’impresa. Insomma, con l’opera di Poirier siamo già all’ibridazione piena di documentario d’esplorazione, cinema d’impresa e promozione…Ma non era finita lì.

(continua…)

0 commenti

Lascia un Commento

Vuoi partecipare alla discussione?
Sentitevi liberi di contribuire!

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *