Auto e Cinema. Gran Torino

Pochi film hanno, per titolo, il nome di un’auto. Ancora meno, quello della prima capitale d’Italia. Unico caso è “Gran Torino” (2008), firmato e interpretato da Clint Eastwood.

È un’opera di alto livello, asciutta e cruda, delicata e commovente, specchio della personalità, dei convincimenti etici e morali del grande uomo di cinema americano.

È un film che, congiungendo la solitudine della terza età alla fatica del comprendere l’altro, il “diverso” diventato il nostro “prossimo” (dal latino: chi ti sta vicino), giunge alla constatazione, che esistono per gli uomini di buona volontà, valori quali rettitudine, amicizia, solidarietà, difesa dei più deboli, per i quali, in ogni stagione della vita, e a ogni latitudine vale la pena impegnarsi, anche sacrificandosi.

Come in altri film di Eastwood “Gran Torino” è pervaso da una malinconia mai mielosa, ma anzi, robusta, fiera e dignitosa, riflesso veritiero di quanto è difficile la vita di ciascuno ovunque si trovi a nascere e vivere.

L’accettazione di quello che potremmo definire il non dimenticare il punto di vista altrui Eastwood l’aveva già bene esplicata come regista in “Flags of Our Fathers” e in “Lettere da Iwo Jima” girati in contemporanea ma poi distribuiti singolarmente con i due titoli di cui sopra. Il primo uscì nel 2006, il secondo l’anno dopo. Entrambe le opere raccontano la battaglia per Iwo Jima, isola del Pacifico, svoltasi nel 1945 tra il 19 febbraio e il 26 marzo. “Flags of Our Fathers” analizza la vicenda presentandola dalla parte degli invasori, gli americani; “Lettere da Iwo Jima” di quella dei difensori, i giapponesi, narrandola in lingua nipponica con sottotitoli in inglese. L’evento dunque analizzato da due distinte ottiche non per banale bilanciamento, ma per rispetto tra i contendenti.

“Gran Torino” ha una prospettiva diversa. È la storia di un uomo, Walt Kowalski, interpretato da Eastwood, di origini polacche. È un pensionato, vedovo da poco, afflitto da un rimorso originato dal suo passato. Ha due figli. Con loro ha pochi contatti, anche perché considera il maschio, venditore di auto giapponesi come un traditore dell’industria delle quattro ruote Usa. Unica sua compagnia una cagnona bianca Labrador anche lei d’età. L’uomo ha lavorato come operaio alla catena di montaggio della Ford a Detroit. Consuma i suoi giorni tenendo in ordine la sua casa monofamiliare di periferia, la classica abitazione statunitense a un piano con piccolo giardino e veranda da dove, ciondolando su una sedia quando riposa, consuma birre fumando, nonostante sia malato ai polmoni. Ha solo un amico, il suo barbiere, italiano d’origine, con il quale ha un rapporto rude e affettuoso. Custodisce come un gioiello nel garage la sua Ford Gran Torino del 1972 di cui si dice fiero d’aver montato in fabbrica, quando fu approntata sulla linea, la componente dello sterzo. Per lui non è solo un’automobile. E’molto di più: è simbolo e testimonianza del suo lavoro, di come e quanto ha faticato, facendo il suo dovere, con dedizione. Walt nella stanza da letto ha sistemato un altro tassello della sua memoria: il baule militare. All’interno, oltre a cimeli vari, è custodito il fucile M1 Garand che l’ha accompagnato durante la guerra di Corea (1950-1953). Di quel tempo conserva pure, e ancora usa, uno zippo, istoriato dallo stemma della Prima Divisione di Cavalleria USA tra le cui fila ha combattuto durante il conflitto.

La sua solitudine è anche aggravata dal fatto che nel quartiere è ormai il solo americano rimasto: unica nella via, è apposta, nella veranda, una grande bandiera stelle e strisce. Intorno tutte le palazzine sono abitate da una comunità asiatica di etnia Hmong, costretta a rifugiarsi negli USA dopo la guerra del Vietnam proprio perché, nel conflitto, era stata dalla parte degli americani. Ma questo Walt non lo sa ed etichetta, alla John Wayne, il gruppo asiatico, come “musi gialli”. In sostanza li sopporta a denti stretti.

Ma tutto cambia una sera. Nel giardino dei vicini Hmong scoppia un tafferuglio. I litiganti sconfinano nel prato di Walt. Per difendere “il suo terreno” imbraccia il fucile di guerra. Lo punta sugli orientali. Seda la rissa.

Il giorno dopo la sorpresa. La famiglia dei vicini viene a ringraziarlo portando fiori e manicaretti della loro terra.

Questo perché, senza saperlo e volerlo, il pensionato ha difeso il nucleo familiare, in particolare il giovane Thao vessato da delinquenti, tra cui il cugino, che vogliono farlo entrare, volente o nolente, nella loro banda. L’omaggio sconcerta il burbero Walt.

Pochi giorni dopo, mentre gira a bordo del suo pick up Ford nelle desolate strade del quartiere, vede la sorella di Thao, Sue, vessata da tre bulli di colore. Interviene, sfodera una pistola, zittisce i teppisti e poi accompagna a casa la ragazza. Nel tragitto parla con lei. Comprende che è intelligente e coraggiosa. Lei ribatte che, nonostante tutto, Walt è una “brava persona”. Ma non è finita. Poco tempo dopo Thao e Sue e la madre si presentano dall’anziano. Il giovane, costretto dalla banda, tempo prima aveva tentato di rubare la mitica Gran Torino. Imbranato com’è ha fatto rumore, Walt è sceso nel garage col Garand ma, mentre lo puntava, è inciampato. Questo ha permesso al ragazzo di dileguarsi. Ora la madre vuole che Thao, paghi il disonore che ha arrecato alla famiglia, mettendosi a disposizione di Walt per una settimana. Di mala grazia l’uomo accetta. Inizia così un rapporto spinoso tra i due che, nel tempo, si trasforma in complice amicizia, al punto che il pensionato – atto per lui inaudito solo poco tempo prima – presta la Gran Torino, per una serata con la fidanzata al giovane. Poi, per educarlo alla sua maniera, lo presenta all’amico barbiere e, infine, gli trova un lavoro come muratore.

Però la tragedia incombe. La banda continua a perseguitare il ragazzo. Il pensionato non ci sta e mena di brutto uno dei delinquenti. I malviventi reagiscono: sparano sulla casa degli orientali e riescono anche a rapire Sue che viene violentata.

Walt piange per l’accaduto. Sente il dovere di porre fine in modo definitivo alla persecuzione della famiglia Hmong. Elabora un piano. Prima di attuarlo va dal suo barbiere, poi da un sarto. Si fa confezionare, per la prima volta nella sua vita, un abito su misura. Infine si confessa con il giovane sacerdote che lo segue da quando la moglie è scomparsa. Thao vorrebbe agire con lui. Ma al momento decisivo Walt con un trucco lo blocca nello scantinato della sua casa. Prima di andarsene per compiere la missione il pensionato confida al giovane amico qual é il rimorso che lo attanaglia. Infine telefona a Sue: nel dirle dove è relegato il fratello, la prega di occuparsi della cagnona.

Non rivelo l’atto finale del film. Scrivo solo che è degno dei valori di Walt.

Veniamo alla sua Gran Torino del 1972. Lo merita. Ritengo che la scelta di quest’auto, media tipo degli States degli anni ’70 del 900, per il film sia voluta. Addirittura è il suo titolo. Forse perché questa Ford, erede della Fairlane, ha rappresentato il corrispettivo su quattro ruote della “way of life” americana di quei tempi. L’auto del pensionato è la versione sportiva della Torino, prodotta dal 1968 al 1976 in 4 versioni: berlina, familiare, coupé e decappottabile. E’a stelle e strisce in tutto, dalle dimensioni, alla linea, alle cilindrate dei motori disponibili (nella prima serie, vanno dai 4900 cc V8 al 6400 cc FE!) che, negli anni crebbero nelle prestazioni. In parallelo la linea fu resa più aggressiva, in particolare il frontale, detto “a bocca di pesce” in cui troneggiava una grande calandra.

Possiamo dunque ipotizzare che Walt abbia risparmiato dollaro su dollaro per poter averne una, perché la riteneva l’auto più rappresentativa e coerente al suo stile di vita. Infatti, è fiero d’averla in parte costruita e, nel tempo in cui si sviluppa il film, geloso la custodisce quasi fosse il monumento a quel che è stato come cittadino e lavoratore. Quando la presta al giovane asiatico certifica con questo d’avere fiducia in lui. Infatti, il ragazzo non è più visto come “un muso giallo” ma come un amico. Non è solo un prestito per una serata ma un trasmettere una serie di valori a una persona che ti ha compreso e capito.

Di passata ricordo che un’altra Gran Torino è famosa. E’ quella dei due agenti di polizia, Starski e Hutch protagonisti con lei di una serie tv distribuita in tutto il mondo. Questa Gran Torino, versione 1975, nella sua livrea rossa con bandoni bianchi su fiancata e tetto, è, di sicuro, meno elegante di quella, verde bottiglia di Walt. Proprio questa vettura era già stata utilizzata nel film “Il Grande Lebowski” (1998, regia Joel Coen.)

Termino con una considerazione sul perché una Ford sia stata chiamata Torino. Ritengo sia stato, davvero, un omaggio della Casa statunitense alla città corrispettivo italiano di Detroit. E mi piace ricordare che, ancora oggi, le versioni con l’allestimento più curato delle Ford europee sono siglate con il nome-stemma “Ghia” proprio in memoria dell’antico accordo e lavoro comune tra il bravo carrozziere torinese e la Casa americana.

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