Auto e Cinema. Il mandolino e la Lancia Gamma

“Giallo napoletano”, opera del 1979 di Sergio Corbucci, ai suoi tempi, nonostante la critica che lo snobbò, ebbe un discreto successo di pubblico e, ancora oggi, il rivederlo soddisfa. Perché quel che si narra e vede è scandito con buon ritmo, alternando bene suspence e comicità, il tutto tratteggiato sullo sfondo di una Napoli non da cartolina quanto piuttosto di una città che “fatica” a tirare avanti, in cui dramma e commedia convivono e, spesso, intersecandosi, si fondono nel grottesco.

Corbucci, forse, fin dal titolo, “Giallo napoletano”, coltivava un’ambizione: proporre la categoria filmica del giallo in salsa partenopea. E’ significativo, infatti, che la pellicola si apra su un cartellone sul quale sono accostate, le foto in b/n del maestro del thriller, Alfred Hitchcock, e quella del principe della risata, Totò. Una dichiarazione d’intenti dunque o, perlomeno, un omaggio partecipe a questi due grandissimi dello spettacolo.

E questo, innegabile, c’è nella pellicola. Protagonista il mandolino. Per questo l’ho inserito nel titolo. Ma, stavolta, non è il mieloso riferimento alla napoletanità stucchevole da immagine classica ma l’esatto opposto. E’ l’oggetto testimone del peso del vivere del protagonista, Raffaele Capece, bravo musicista, costretto per campare a fare il posteggiatore davanti ai ristoranti. Lo interpreta con efficace stupore allibito, un riccioluto Marcello Mastroianni. Il mandolino è infatti la causa, non solo musicale, della storia nera narrata. E’ forse l’unico caso in cui, in un film, questo strumento simbolo popolare per tanti versi di Napoli sia usato per presentare il lato oscuro e misterioso della città. E questo riflesso è avvalorato dalla colonna sonora di Riz Ortolani.

Aggiungo poi, che la pellicola si regge su un bel cast. Sul versante partenopeo troviamo, come padre di Capece, il grande Peppino de Filippo (fu il suo ultimo film), Peppe Barra nei panni di un biscazziere, Ornella Muti, misteriosa infermiera. Su quello esterno a Napoli, Michel Piccoli, compunto direttore d’orchestra, Renato Pozzetto, spaesato commissario di polizia proveniente dal Nord, Capucine nei panni inconsueti di una suora e la conturbante Zeudi Araya, seconda moglie di Piccoli.

La vicenda mescola presente e passato, partendo dall’anteguerra, e ruota, ovvio, sia su un mucchio di soldi desiderati da tanti sia su una catena di ricatti. Capece è coinvolto solo perché ha accettato di fare una serenata sotto un balcone. E durante la sua esibizione ci scappa il primo morto. Già afflitto da un padre che gioca tutto al lotto, il mandolinista vive una vita strascicata causata non solo dalla zoppia (Peppino dice che “tiene la gamba sicca”) ma perché è pure perseguitato da chi ha prestato i soldi al padre. Con la suonata sotto il balcone cade dalla padella nella brace. Viene così coinvolto in una storia più grande di lui, più da vittima che da protagonista. Unico dato positivo il fatto che conosce da vicino il grande maestro di musica classica. Tra i due si stabilisce un rapporto di reciproca stima. Memorabile, in questo senso, lo scambio di battute tra Piccoli e Mastroianni quando si parlano la prima volta. Il mandolinista s’accorge che anche Piccoli è zoppo. Chiede, con garbo, la causa dell’handicap. Piccoli risponde “giocando a Polo”. Mastroianni ribatte “io polio(mielite)”

Non rivelo il finale. Il film è un giallo, non sarebbe giusto! Per incuriosire però, aggiungo che nello svolgimento della trama si trova di tutto: da un nano strangolato in un frigo, a un matto che chiede un fiammifero a Mastroianni e poi vuole dargli fuoco, a Zeudi Araya che osa cantare (ritengo e spero, però, doppiata) Funiculì Funicolà, e a un luogo, intrigante e sinistro, Villa Spera al Vomero, che si rivela il punto di snodo della vicenda.

Passo invece alle automobili che appaiono nel film. Sono tre, anche loro significative per l’impianto e svolgimento della storia. La prima è un Maggiolino cabriolet bianco, guidato da misteriose persone, anche in parrucca, che appare nei momenti chiave. La seconda è una 600 D, l’auto di Capece, adattata per la guida al suo handicap. Vedendola mi ha ricordato che anche Stefano Satta Flores, l’intellettuale tignoso di “C’eravamo tanto amati”, dispone della stessa vettura. Anche il colore, blu è il medesimo per entrambe: quella di Capece è in miglior stato, arricchita, si fa per dire, da una incongrua striscia bianca sui fianchi.

Viene da pensare, dunque, che la 600 sia stata identificata nel cinema italiano come l’auto popolare, il muletto dell’Italia che disponeva di poco, mentre la celebrata 500 sia stata considerata, ed ancora oggi lo è, il mezzo di trasporto carino, minuscolo ed allegro del nostro Paese.

Nel film la 600 di Mastroianni è protagonista di una scena che ha quasi tempi e modi della comica.

A bordo troviamo, col mandolinista, il commissario di Polizia, lo stralunato Pozzetto. Mentre l’utilitaria scende da Napoli alta i freni non rispondono più. Motivo: sono stati sabotati dai trucidi ricattatori di Capece. Inizia così un raid su strade tortuose e in discesa: non manca neppure un passaggio obbligato giù da una scalinata. Il percorso si conclude con la 600 che piomba e, finalmente, si ferma all’interno di un supermercato.

La terza auto è il contraltare della 600. E’ una prestigiosa Lancia Gamma: auto da ricchi, appunto. Infatti è la vettura del maestro Piccoli. Nel film appare particolarmente bella e armoniosa nel suo luminoso colore argento. Capece su quest’auto vive un breve momento erotico con la bella Zeudy Araya. La donna, dopo avergli confidato che si eccita con gli zoppi (infatti, anche suo marito lo è), gli salta letteralmente addosso. Capece, prima intimidito, nicchia, ma poi travolto dai sensi, si lascia andare pronunciando con foga la battuta volgarotta sul “porpetiello affugato”, che diventerà, grazie al successo del film, la più famosa, citata e ricordata, della pellicola.

Chiudo con alcune note sul Maggiolino cabriolet e la Gamma.

Nel film il cabriolet tedesco svolge un ruolo misterioso e, quindi, non appare mai scoperto. Il colore dell’auto è bianco. Tinta non molto richiesta in Italia durante il periodo d’oro di mercato di quest’auto a cavallo tra gli anni ‘70 e ’80. Allora era quasi obbligatorio il nero per la carrozzeria e il grigio perla per il tetto in tela.

La Volkswagen a cielo aperto ha una lunga storia e risulta essere, considerato il suo successo nel tempo, una delle più riuscite esemplificazioni del concetto del cabriolet. L’idea originale risale al 1949 quando il carrozziere Wilhelm Karmann propone alla VW il modello, derivato, per la meccanica, dalla VW base. La Casa accetta: inizia così la produzione. Si protrarrà sino al 1980, adottando via via le migliorie tecniche del modello berlina del Maggiolino. La terza serie del cabriolet, sul mercato dal 1967, è la più diffusa. Ancora oggi è molto ricercata e non solo dai collezionisti.

La Lancia Gamma berlina debutta nel giugno del 1976 al Salone di Ginevra, insieme alla coupé. Fu prodotta sino al 1984. Sua ambizione: rinverdire la tradizione di classe, eleganza, innovazione e affidabilità delle Lancia di fascia alta. Filante ed armonica nella linea, studiata in collaborazione con la Pinifarina, la carrozzeria, è a due volumi. Gli interni, arredati con ingegnosità e qualità tipica Lancia, sono comodi e spaziosi. Dal punto di vista tecnico le particolarità sono molte: dalla trazione anteriore, allora adottata ancora poco sulle grandi berline, al motore, un boxer quattro cilindri, con alberi a camme in testa in lega d’alluminio disponibile con due cilindrate (2000 cc,120 cv; 2500 cc,140 cv). L’insieme della vettura viene migliorato ed affinato nella seconda serie, avviata dal 1980. La produzione si fissò su poco più di 22 mila esemplari, compresa la sempre bella coupé, uscita dalla matita di Aldo Brovarone e allestita da Pininfarina nelle due serie della Gamma in circa 6800 unità.

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