Auto e Cinema. La classe operaia va… in 850

“Macchina indovinata !” Questo afferma l’operaio Lulù, né “La classe operaia va in paradiso” (regia di Elio Petri, 1971) mentre guarda la sua berlina Fiat 850 bianca.

Interpretato dal grande Gian Maria Volontè il metalmeccanico, il cui cognome, non a caso, è Massa, è il protagonista di quest’opera che esprime ancora oggi una sua potenza narrativa, ma è, soprattutto – pur se elaborata, come spesso è accaduto per le migliori opere del cinema nazionale, seguendo i canoni della commedia d’autore – documento storico della realtà della fabbrica e della condizione operaia italiana degli anni ’70 del ‘900, narrato attraverso il dipanarsi della parabola di Massa, da operaio a cottimo inviso ai colleghi e poi, dopo un infortunio sul lavoro (altra battuta di Volontè: “Ho perso il dito, ho perso il posto !”) contestatore totale fino al licenziamento e, infine, riassunto grazie all’impegno dei sindacati.

E in questo contesto l’850 è oggetto e testimonianza della quotidianità alienata di Lulù, risultato della società in cui vive, delle sue modeste e futili ambizioni sociali e delle sue frustrazioni che lo consumano fino a portarlo sulla soglia della pazzia al punto di fargli dire, quando vede suo figlio con i compagni di scuola, “mi sembrate tanti operai piccoli”.

L’850 berlina è protagonista di una sequenza chiave del film. Lulù, finalmente, è riuscito a convincere una sua procace collega ad appartarsi con lui per un incontro intimo. L’alcova è l’850 portata da Lulù in un capannone abbandonato. E’ inverno, quello gelido, grigio e triste del Nord. L’evolversi della scena vira ben presto nel grottesco, dove lo spettatore non sa se ridere o rattristarsi. L’interno dell’850 è riflesso del suo proprietario. Dallo specchietto pende il gagliardetto del Milan, sul cruscotto ballonzola la testa di un cane di plastica. Lulù spiattella banalità, la ragazza è imbarazzata e impaurita. Per mettersi comodi entrambi cominciano a muoversi nell’abitacolo. Intabarrati nei cappotti, faticano a spogliarsi. Lo spazio è quello che è, il cambio sul pavimento da fastidio. Alla fine il rapporto si consuma. Un campo lungo fa vedere l’850 che traballa, unico oggetto bianco in un vuoto, grigio ambiente. Poi la cinepresa stacca e inquadra Lulù che, in mutande e senza scarpe, scende dall’auto badando a non bagnarsi le calze. Sul lato opposto fa altrettanto la ragazza che comincia a parlare di quanto è accaduto e dei possibili sentimenti che possono nascere. L’operaio mentre si riveste non bada a lei osserva la “sua” 850 e dice “Bella. E’ un anno che ce l’ho e la guardo ancora. Macchina indovinata!” Di questa sequenza si può ridere e piangere insieme. E’ ilare ma è permeata di squallore e tristezza infinita.

Quel “macchina indovinata” non è il frutto di una felice intuizione della sceneggiatura. Ma, forse è riprova della cura con cui fu elaborato il film che, caso forse unico, per opere di quest’argomento, si avvalse della collaborazione di un consulente sindacale. E’ probabile quindi che proprio da lui derivi il suggerimento della frase, espressione dell’articolato meta linguaggio della fabbrica, trasfuso nel parlare comune della città italiana dell’auto.

Infatti, e qui parlo della mia conoscenza personale, a Torino, dove son nato, in quegli anni, era consueto il sentir dire di una vettura senza difetti che era, appunto, indovinata. E in quell’indovinata ci stava tutto anche perché era diffusa la convinzione che alla Fiat non tutte le auto nascessero uguali: qualcuna era costruita meglio delle altre. In quell’aggettivo, in più c’è qualcosa di scaramantico risolto però in modo positivo. Al suo opposto, allora, girava la definizione, per una vettura con qualche difetto di costruzione di “auto del venerdì”. Ovvero era stata approntata prima del fine settimana. E in tanti alla catena di montaggio, si spiegava, avevano la testa tutta sul sabato e domenica. La paura più diffusa tra i clienti, ricordo, era quella di trovarsi tra le mani un’auto con la vernice non perfetta, a “buccia di arancio” (altra definizione figlia del vocabolario di fabbrica) Imperfetta perché, si motivava, l’impianto di verniciatura veniva spento il venerdì e alcune auto rimanevano sospese tra verniciatura ed essiccatura o lasciate a bagno nel colore per due giorni.

Nella prossima puntata della saga dell’850 nel cinema scriverò sia della sua storia sociale, sia del suo prodotto (costruito, dal 1964 al 1971, in oltre 2 milioni e 200 mila unità nelle sue diverse versioni: davvero un’auto di massa e per questo l’auto di Lulù Massa!) prendendo stavolta spunto da un altro film simbolo del nostro Paese in quegli anni interpretato dalla grande Anna Magnani.

E’ “L’automobile” anche lui uscito nel 1971 diretto da Alfredo Giannetti. Qui la coprotagonista con Nannarella è un 850 spider gialla…

1 commento
  1. iGorji_N1
    iGorji_N1 dice:

    Ricordo queso film, memorabile come tante altre pellicole del tempo….
    Io non ho mai né guidato né avuto un’ottecinquanta, pertanto rivedendo nella scena allegata la fatica dei protagonisti, sono portato a pensare, a ragion veduta, che forse il “cinquino” era proporzionalmente più comodo, aspetto conferme! ( sarebbe bello un cyberdibattito )

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