Cari Comunicatori, siete sicuri che si trattino così i giornalisti?
Se ne discute nelle tavole rotonde, nei convegni e durante gli eventi, ma come è cambiata la professione di addetto stampa e soprattutto come sono cambiati i rapporti con i giornalisti?
Un tempo il rapporto con la stampa era il patrimonio del PR (quasi un suo “portafoglio” personale, così come usa nel ramo delle assicurazioni) Oggi invece va sempre più di moda demandare ad un’asettica Agenzia di comunicazione esterna all’Azienda il contatto diretto con i giornalisti per convincerli a scrivere di questo o di quello.
Antonio Signorini (da non confondersi con quell’omonimo “tutte mossette” che imperversa nelle più squallide trasmissioni televisive gossipare) è un giornalista de Il Giornale e, anche se non lo conosciamo personalmente, ne condividiamo ogni parola che ha pubblicato in un post su Linkelid.
“E’ un po’ irritante e poco professionale quando le società di comunicazione che seguono eventi e aziende (quasi mai gli addetti stampa) cercano di strapparti una conferma con tecniche manipolatorie. Ad esempio quando ti dicono che quell’evento è alla Camera o al Senato, quindi devi per forza “dire molto prima la partecipazione perché è un’istituzione e serve un accredito speciale”. Anche uno stagista al secondo giorno di lavoro sa che i giornalisti si possono comunque accreditare in Parlamento. Altre volte segnalano eventi e si sorprendono che non interessi farci un articolo, “eppure c’è anche l’onorevole xyz, un parlametare!”. Forse le agenzie di comunicazione non lo sanno. O forse pensano che dopo 20 anni di mestiere, tu non lo sappia. O forse “ce provano”.
Lo fanno molto, molto spesso e la colpa chiaramente non è del malcapitato che fa la telefonata. Colpa di un protocollo sbagliato. Colpa di chi è convinto che si possano applicare dei protocolli nelle relazioni con i mestieranti di un lavoro, i giornalisti, che è tutto tranne che burocratico. Colpa di chi si fa pagare spacciandosi per esperto di meccanismi che invece gli sono totalmente estranei.
Ragioniamo in termini di rischi e vantaggi. Che cosa si spera di ottenere facendo chiamare un giornalista da un perfetto sconosciuto per proporre la pubblicazione di un articolo su un argomento che generalmente non è una notizia? Basta il buon senso per capirlo. Si irrita il redattore, si danneggia l’immagine del cliente, non si vedrà uscire una riga del comunicato o sull’evento. Cioè il contrario di quello per cui sarebbero pagati gli studi di comunicazione. Rischi altissimi a fronte di un risultato che è sempre nullo. Comunicare con i giornalisti non è fare vendite. Non c’è nessuna garanzia di risultato dietro una grande quantità di contatti e telefonate.
Serve un rapporto diretto. Serve un legame di fiducia tra il comunicatore e chi produce informazione. In altre parole, serve un addetto stampa vecchio stile, che però sappia usare gli strumenti della comunicazione digitale. Serve un insider dell’azienda che sta curando che possa essere un punto di riferimento. Non un portavoce, che cerca di piazzare contenuti istituzionali e poi scompare. Altri esempi di vita professionale vissuta in questi anni: uno studio chiama per un comunicato di una associazione datoriale di settore. Mi viene in mente che potrebbe essere utile fare un focus proprio su quel settore e chiedo al comunicatore le prime dieci aziende per fatturato e alcuni dati. Dopo un giorno mi risponde dicendo che non può dare questa informazione perché “è riservata”. E poi riprova a spingere il comunicato, che chiaramente finisce direttamente nel cestino. Esempio opposto: Responsabile comunicazione di una confederazione datoriale. Lavora lì da 15 anni, ha instaurato legami di stima professionale e a volte di amicizia vera con i suoi “clienti”. Sa tutto del suo mondo ed è un interlocutore irrinunciabile per il giornalista. Ti sa guidare nella ricerca di informazioni e ogni tanto di segnala una dritta su temi che non riguardano il suo lavoro. Impossibile ignorare i suoi input, anche quando non sono notizie bomba. Difficile mancare un convegno della sua organizzazione.
Questo per dire, non esistono ricette se non – come mi ha appena detto un comunicatore bravo – un lavoro costante di cesello e relazione. Non esistono tecniche, se non una conoscenza profonda e aggiornata dei media, vecchi e nuovi. Di gente in grado di fare questo mestiere ce n’è tanta in giro. Sta alle aziende capire se e come vogliono comunicare con i media.”
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