La 500 di Marianna

Per l’estate sotto l’ombrellone, il nostro Autore Sergio Troise ci propone la lettura di un racconto dedicato alla Fiat 500. Un modo originale e personale per celebrare da appassionato il 60mo anniversario dell’auto più amata dagli italiani.

La macchina con il numero 2 era ferma nel parco chiuso poco oltre il traguardo, dietro transenne sorvegliate, con un foglietto appoggiato sul parabrezza: «Da verificare». Era passata più di un’ora da quando era passato sotto la bandiera a scacchi e Giò non si spiegava il perché di quell’avviso. Finalmente si vide qualcuno: era un commissario tecnico dall’aria burbera. «Si allontani, si allontani» disse con il fare di chi impartisce ordini perentori. Giò continuava a non capire. Poi il commissario, gesticolando come un arbitro di calcio che indica il dischetto del rigore, si rivolse a due collaboratori e disse: «Questa macchina va smontata».

«Smontata? Ma che cosa dice, ingegnere?» domandò Giò.

«Dobbiamo verificare se il motore è regolare».

«Ma perché, forse qualcuno ha presentato reclamo?».

«No, è una verifica d’ufficio. L’abbiamo decisa noi commissari perché trentadue secondi di vantaggio sul secondo classificato sono tanti, direi troppi», rispose l’ingegnere, stavolta con l’aria chi vuol dire: tu fai il furbo ma noi sappiamo il fatto nostro.

La protesta di Giò si fece accorata: «Ma questa è la cinquecento di mia sorella Marianna. E’ una macchina più che normale, viene usata tutti i giorni in città».

Niente. Il commissario fu irremovibile. E mentre Giò si lamentava, lui continuava a scrivere su un registro dove venivano annotati i dati delle auto da verificare. Infine si rivolse ai meccanici che lo assistevano: «Ci vediamo in officina».

Giò era un ragazzo di neanche vent’anni quando partecipò, da dilettante puro, alla prima corsa automobilistica della sua vita. Una garetta in salita per coronare il sogno che si portava dentro da bambino. Fino ad allora si era accontentato di andare a vederle, le corse. Il pretesto era scortare Lello, il fratello più grande dell’inseparabile amico Paolo, nelle trasferte sulle piste di mezza Italia, soprattutto nella vicina Vallelunga, a pochi chilometri da Roma, o nelle cronoscalate che si svolgevano in Campania, come la Sorrento-Sant’Agata e la Amalfi-Agerola, o in Calabria, teatro della Coppa Sila. Lello correva con una piccola Fiat 500 elaborata a Cosenza da un preparatore poco noto rispetto ai maghi dei motori del nord, ma altrettanto bravo e con un nome che evocava spiriti irriducibili: si chiamava Avventurieri. Andava forte, Lello, molto forte: quasi sempre vinceva o si piazzava tra i primi. E la sua piccola macchina da corsa rappresentava per il gruppetto di Giò e degli altri giovani amici una vera attrazione. Faceva girare la testa come una bella ragazza: bianca e nera, aveva il cofano posteriore sempre aperto e dallo scarico libero emanava un rombo assordante nonostante il motore fosse un piccolo bicilindrico. All’interno, per alleggerire la scocca, era stato smontato tutto il superfluo: era rimasto soltanto il sedile per il pilota, piccolo, basso, avvolgente, mentre la strumentazione consisteva essenzialmente nel grande contagiri sistemato in posizione centrale, davanti a un piccolo volante in pelle. I ragazzi davano una mano a caricare e scaricare la macchina dal carrello, la spingevamo nei box, le davano una pulita, passavano un panno sul parabrezza. A loro bastava toccarla, magari sedersi per un attimo all’interno, a motore spento, per rubarsi la loro dose di adrenalina e sentire il cuore battere forte. Seguire Lello nelle trasferte era per i ragazzi una gioia autentica. Gioia che avrebbero provato tante altre volte, anche al seguito di altri amici più grandi. Lello, infatti, era stato una sorta di caposcuola per un gruppo di giovani rampanti con la passione per le corse, a cominciare da suo fratello Marcello, e poi Alberto, Sergio, Paolo, Roberto… tutti si erano lasciati contagiare dal virus della pista (e delle cronoscalate). Giò sempre dietro, con Paolo e gli altri a guardare. E a sognare. Una volta erano andati in tre fino in Calabria per il solo gusto di veder passare le auto lungo le strade di montagna della Coppa Sila, una corsa in salita che regalò fama e gloria a Domenico Scola, ex autista di autobus diventato un idolo per gli appassionati dell’epoca. Senza soldi per pagarsi un albergo, Giò, Paolo e Filippo dormirono in macchina (una piccola Fiat 850), due sui sedili reclinabili davanti, un altro dietro. Paolo s’infilò persino il pigiama. Un’altra volta Giò era andato a Monza per il Gran Premio d’Italia. Guidò una Giulia (presa in prestito) ininterrottamente per otto ore all’andata e per altre otto al ritorno. Con sua sorella Marianna e tre amici, Filippo, Giorgio e Fabiola, passò la notte a Vimercate, cuore della Brianza, in una casa disabitata, con i materassi a terra. E per entrare in autodromo senza biglietto fece chilometri a piedi, scavalcando muretti, passando sotto le reti di recinzione e inventando scuse a ogni controllo, fino ad arrivare addirittura all’ingresso della sala stampa, dove esibì senza pudore un improbabile tesserino di giornalista: fu scacciato in malo modo da un infuriato funzionario dell’ACI.

Ma la massima aspirazione di Giò e dei suoi amici era cimentarsi in gara. Nell’impossibilità di farlo davvero, s’inventavano dunque qualsiasi cosa desse loro la “sensazione” di pilotare un mezzo a motore in condizioni da gara. Tra le tante trovate, è rimasta memorabile l’organizzazione di una sorta di rodeo motoristico nella tenuta di campagna di un amico ad Acerra, la città di Pulcinella in provincia di Napoli. Il “toro” a motore era una modesta Topolino trovata in condizioni pietose (ma funzionante) da uno sfasciacarrozze e acquistata al prezzo di trentamila lire. Con cinquemila a testa, la presero in sei. Con Giò, altri cinque matti da legare, Paolo, Carlo, Massimo, Jonny, Ciro. Sullo sterrato, controsterzi e derapate davano il sapore del rally, e anche se la Topolino aveva un motore asfittico e perdeva pezzi ad ogni salto sui dossi (una volta uno sportello, un’altra volta una ruota…) il divertimento per i ragazzi era assicurato. Tutto finì, purtroppo, quando uno dei sei andò a schiantarsi contro un albero: l’auto si spezzò in due e divenne inutilizzabile. Ma – come si dice – aveva fatto il suo.

Tutto questo si portava dentro Giò alla vigilia della fatidica prima corsa, affrontata in assoluta precarietà ma con passione sufficiente per trovare un rimedio a tutto e raccogliere persino le prime briciole di gloria. Per partecipare non serviva necessariamente un mostro di potenza. Bastava una «500». Già, perché la piccola auto della Fiat non è stata – come si potrebbe credere – soltanto l’utilitaria-amica che ha accompagnato una generazione verso il primo viaggio, il primo lavoro, il primo amore. È stata anche un’auto da corsa. Proprio così: all’inizio degli anni settanta la commissione sportiva dell’Aci aveva deciso di favorire l’ingresso di giovani piloti nel mondo delle competizioni e per questo fu istituita una categoria ultraeconomica denominata «Turismo di serie Gruppo 1». Bastavano un paio di dotazioni di sicurezza (estintore e staccabatteria), un fermo per i cofani (la molla dei libri andava benissimo) e si poteva gareggiare. Giò colse l’occasione al volo. Con una scusa si fece prestare la «500» da sua sorella Marianna (era un modello «L» color cioccolatino) e si iscrisse alla Abriola-Sellata, cronoscalata di circa quattordici chilometri su una strada tutta curve e tornanti, tra fustai di cerri e faggi e le cime delle Dolomiti lucane. Si classificò, come abbiamo visto, primo della «Classe 500» con trentadue secondi di vantaggio su un pilota locale al volante di una vettura praticamente identica alla sua. Ma quando arrivò al traguardo ebbe la sorpresa di cui s’è detto: era “indiziato di reato”. L’auto fu dunque portata in officina e verificata fino all’ultima vite. Alle tre del mattino il motore veniva richiuso e un mortificato ingegnere della commissione tecnica presentava le scuse al giovane debuttante. «La sua auto è regolare, evidentemente lei ha la stoffa del pilota di razza». Un complimento che valse più della coppetta in simil argento consegnatagli sul podio.

Giò arrivò alle sette del mattino a casa, assonnato e trafelato. Fece appena in tempo a cancellare i numeri dalle fiancate e dal cofano e a rimontare i paraurti. Poi nascose la coppa e la sua felicità. Marianna riprese la macchina senza accorgersi di nulla.

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1 commento
  1. renato ronco
    renato ronco dice:

    Adesso però ci devi dire che fine ha fatto Giò! Chi è, che seguito ha avuto quella esperienza? Ciao

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