La nuova guerra mondiale che si combatte con le auto

Molti Paesi del mondo si sono dotati di una nuova arma: si chiama automobile. Può essere usata in vari modi: per colpire al cuore il nemico, magari attraverso uno scandalo capace di ledere l’immagine sia dell’azienda concorrente sia, di riflesso, delle istituzioni; oppure, da utilizzare per dimostrare quanto si conta ancora, anche se ci si trova alla fine di un percorso.

Per la serie: mai dire mai. E, guarda caso, di mezzo c’è quasi sempre la Germania e un suo costruttore. A partire da quando, anni fa, a fare una magra figura fu la Mercedes, nel momento in cui la prima Classe A si ribaltò miseramente durante la prova di alcuni giornalisti. Lo smacco divenne virale. Comincio così a vacillare il mito della perfezione tedesca: la Casa di Stoccarda fu oggetto di scherno e il Paese tutto ne subì le conseguenze. Vedevi un tedesco e dicevi: «Ooops!», dal titolo di una storica copertina di Panorama. Battute, anche pesanti, ma poi tutto finì. Le cose sono cambiate in seguito. Anche quando Fiat, con l’agguerrito Sergio Marchionne, nel 2009 tentò vanamente di conquistare la tedesca Opel, pochi mesi prima del blitz vincente su Chrysler. La scalata si trasformò in una sorta di braccio di ferro politico. Vecchie ruggini e tensioni tra Italia e Germania affiorarono tutte. Di fatto, ai tedeschi non andava proprio giù che un’azienda italiana, per di più la Fiat, si impossessasse di un loro gioiello. E così Angela Merkel sbatté la porta in faccia a Marchionne. La scusa, però, portava il timbro della controllante Gm: o entro poche ore Fiat colmava un «buco» nei conti della Casa automobilistica o non se sarebbe fatto nulla. Un ricatto che l’ad di Fiat non digerì.

E arriviamo al Dieselgate della Volkswagen: con gli Stati Uniti che, dal settembre 2015, continuano a infierire sul colosso tedesco, comunque reo colpevole di aver alterato le centraline di 580.000 motori diesel nel Paese (11 milioni in tutto il mondo), applicando a più riprese sanzioni per oltre 23 miliardi. Con il Dieselgate, inoltre, sono tornati i fantasmi dell’ultima Guerra mondiale. A occuparsi dei risarcimenti ai consumatori raggirati, è lo studio legale di Michael Hausfeld, lo stesso che si è occupato delle cause delle vittime del nazismo. L’avvocato dal dente avvelenato, inoltre, ha scatenato i suoi «delfini» in Europa per difendere i consumatori raggirati dal Gruppo Volkswagen.

Il Dieselgate, non ha mandato in cortocircuito solo i rapporti tra Usa e Germania, ma ha fatto sì che i tedeschi ne approfittassero per cercare di gettare fango sui concorrenti europei degli altri Paesi, in primis Italia (Fca) e Francia (Psa e Renault). Perché prendersela solo Volkswagen, fino all’autunno 2015 modello di efficienza e rigore, elementi che da sempre caratterizzano la Germania?

Ecco allora scendere in campo il ministro dei Trasporti, Alexander Dobrindt, che ha chiesto a più riprese (ora, visto quanto sta accadendo negli Sati Uniti, sarà soddisfatto) verifiche sull’odiata Fca, arrivando perfino a minacciare il blocco delle vendite dei veicoli del gruppo sul territorio. A rispondergli per le rime è stato il responsabile dei Trasporti italiano, Graziano Delrio, avvertendo il collega che l’interlocutore di Palazzo Chigi non è Berlino, ma l’Unione europea. (https://autologia.net/ci-vuole-ci-vuole/) La querelle sull’auto, di fatto, mascherava la lite sulle questioni economiche del nostro Paese. Tutti contro tutti, dunque, o quasi. E il settore automobilistico, con i suoi problemi riguardanti le sempre più severe norme sulle emissioni e le sfide che lo attendono (dalla diffusione della mobilità elettrica alla guida autonoma, in nome di un’aria più pulita e una maggiore sicurezza sulle strade) suo malgrado è al centro di una nuova guerra. L’ultimo significativo esempio arriva in questi giorni, dalla singolare tempistica con cui l’Agenzia Usa per l’ambiente ha accusato Fca delle stese colpe di Volkswagen. Lo Tsunami si è abbattuto su Detroit e Torino alla vigilia dell’insediamento di Donald Trump alla Casa Bianca. E lo stesso Marchionne ha ipotizzato che, sotto sotto, ci potrebbe essere un colpo di coda dell’amministrazione Obama. O, più facilmente, di alcune schegge impazzite tra chi lo circonda, pronte a dimostrare di contare tanto anche se sul punto di andare a casa. A costo che il caso potrebbe comportare rallentamenti (o anche peggio) nei piano di sviluppo del gruppo sullo stesso territorio Usa. (da ilgiornale.it)

 

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