L’automobile nel cinema (terza parte)

L’automobile nel cinema (prima parte)

L’automobile nel cinema (seconda parte)

Nel 1927 il cinema, con “ Il cantante di Jazz”, si mise a parlare e in capo a tre anni, complice la crisi del ’29, “ le pesanti e costose attrezzature per la presa diretta del suono costrinsero il cinema di finzione a rinchiudersi negli studios, limitando le riprese dal vero”(A. Aprà). Il documentario, che utilizzava il sonoro soprattutto in sede di montaggio (commento musicale, voce fuori campo…) si scontrò comunque con le difficoltà di budget in ogni caso inferiori. Non nel caso di Citroen, che giusto a cavallo di quegli anni, tra le altre imprese, finanziò la Crociera Gialla, la spedizione di due gruppi di autocingolati, “Pamir” e “Cina”, che si vennero incontro da Beyrut e da Pechino fino ad incontrarsi nel Sin Kiang. Per gli equipaggi e i mezzi si trattò di superare l’Himalaya e il deserto di Gobi, tra le difficoltà climatiche e ambientali di un paese in piena guerra civile, in un viaggio durato dall’aprile del ’31 al febbraio del ’32, entrando a Pechino dopo dodicimila chilometri. I protagonisti, oltre al capo della spedizione, Georges-Marie Haardt, amico personale di Citroen e suo direttore generale, già a capo della traversata del Sahara e della Crociera Nera, furono naturalisti, archeologi, ricercatori della National Geographic Society, nonché lo storico Georges Lefèvre ed il paleontologo e geologo Teilhard de Chardin…E naturalmente una equipe cinematografica diretta da Andrè Sauvage, che viaggio’ con quattro operatori nel gruppo Pamir, mentre nel gruppo Cina riecco George Specht, coadiuvato da Leon Monzet, operatore, con William Sivel tecnico del suono. Sauvage era un personaggio poliedrico: cineasta, regista, scrittore e pittore, frequentava gli ambienti intellettuali e artistici parigini ed era amico di Jacob, Gide,Cocteau…. Aveva gia’ realizzato almeno tre notevoli documentari di genere diverso: alpinismo (“La traversata del Grèpon”), viaggio (“Ritratto della Grecia”) e urbano (“Studi su Parigi”). L’attrezzatura dell’equipe comprendeva una Mitchell “pesante” a registrazione sonora, una Mitchell portatile, una Eyemo Bell Howell ed una Debrie, tutte in 35 mm. (film Eastmankodak), oltre a microfoni, registratori, generatori di elettricità e fotocamere che permisero riprese e registrazioni di interviste dal vivo. Il film che nacque da questa avventura (dalla quale Haardt non torno’, morendo a Hong Kong ucciso dallo stress e dalla polmonite) fu presentato in anteprima alla Sorbona già’ nel ’32, ma ebbe la prima ufficiale solo nel ’34, di nuovo all’Opèra e di nuovo alla presenza del presidente della Repubblica: in quello stesso anno fu selezionato per la sezione documentari del Festival di Venezia…E i due anni o quasi passati tra anteprima e prima? Tra Sauvage e Citroen era esploso un dissidio riguardante il montaggio finale, che Sauvage riteneva troppo pubblicitario nella forma voluta da Citroen: il quale tolse il montaggio a Sauvage e lo affidò…a Poirier! Che eseguì secondo i voleri del “patron”: Sauvage ritirò la firma, la polemica divampò, il mondo culturale con alla testa André Gide e Teilhard de Chardin si schierò con Sauvage…che però alla fine, da quel personaggio complesso e contraddittorio quale era, abbandonò la contesa e finì per essere citato solo nei titoli di coda come “cineasta”. Gli eredi avrebbero poi ottenuto il riconoscimento della paternità di un film che per decenni fu pero’ il film di un altro: ma che la faccenda (ed il cinema) a Sauvage non interessassero più è dimostrato dal suo ritiro in campagna. La non tanto piccola vicenda è la spia dell’importanza che il cinema documentario e di impresa aveva assunto nel mondo culturale – e politico: gli anni ’30 sono gli anni del film-saggio, del film “educativo”, del didattismo e dell’impegno sociale e politico nelle democrazie e d’altro canto del cinema francamente propagandistico dell’URSS staliniana e delle dittature di Italia e Germania – per le quali basterà ricordare il già citato Comerio e soprattutto la perversa “bellezza” dell’opera di Leni Riefenstahl. La guerra, ancora una volta, avrebbe segnato una svolta: nello stile del documentario, a cui misero mano i maggiori cineasti di Hollywood, al seguito delle truppe alleate, e nei temi affrontati – i campi di concentramento, per esempio – che distrussero per sempre l’innocenza dei registi e degli operatori, se non quella del pubblico, che scoprì solo in seguito la crudezza di quelle immagini. Si apri’ il filone della ricostruzione storica del ‘900, parallelamente, come nota Aprà, con l’allontanarsi della guerra, alla “ritrovata ambizione di un realismo controllato dalla forma” nel documentario, al quale si dedicano sempre più spesso i grandi nomi del cinema di finzione.

Negli anni ’50 – ’70 anche il cinema industriale, nella ricostruzione prima e nel consumismo poi, registrò una ripresa notevole in tutto l’Occidente industrializzato. In Italia, come già osservato, in misura notevole, correlata al boom economico ed alla seconda modernizzazione del paese e di pari passo con il cinema di finzione. Una fioritura che un po’ dappertutto fece del cinema un vero medium di massa fino all’apparizione della TV commerciale, a partire dalla seconda metà degli anni ’70, che tolse peso e importanza al documentario industriale cinematografico, creando non pochi problemi anche al cinema nel suo insieme. E ancora una volta, in modo particolare in Italia…Ma fino ad allora il documentario industriale – denominazione che ormai possiamo usare senza timore di reprimende – fu punto di incontro tra la realtà della fabbrica e quella intellettuale e artistica. Scorrendo gli indici degli archivi e delle mediateche si incontrano, nella sterminata produzione italiana (si parla di trentamila titoli per il secolo scorso) nomi tra i più importanti del cinema italiano: Olmi, Bertolucci, Taviani, Risi, Pasolini… che si dedicarono a raccontare acciaio, petrolio, plastica e automobili conservando la propria identità stilistica.
Come in Francia, dove Jacques Wolgensinger, direttore delle relazioni esterne di Citroen, personalmente innamorato del cinema, affido’ nel ’72 a Louis Malle- (per i più giovani: “Soffio al cuore”, “Arrivederci ragazzi”, “Ascensore per il patibolo”…) la realizzazione, in piena libertà, di un documentario sul nuovo impianto di Rennes in Bretagna e sullo stand Citroen al Salone di Parigi. Le stranianti immagini scelte da Malle istituiscono infatti un parallelo sottile tra i lavoratori nella fabbrica e i visitatori del Salone, che fa di “Umano, troppo umano”- è il titolo del documentario – l’algida illustrazione di certe analisi di Barthes di qualche anno prima. Nel 1980 a Bertrand Tavernier fu affidato invece l’incarico di raccontare uno dei primi impianti robotizzati, quello di Meudon: ne nacque un film sospeso in un’atmosfera da sogno fantascientifico. A distanza di decenni, proiettati a France Cinema furono riconosciuti – certo da un pubblico appassionato ed esperto – come esempi di documentario moderno, in cui le diatribe teoriche affrontate da Grierson appaiono ormai lontanissime. Per parte sua, Wolgensinger, come molti suoi colleghi, curò poi la produzione, spesso affidata a Claude Caillet, di documentari sportivi su rallies e raids, di presentazioni di nuovi modelli e di notevoli storie della Marca, utilizzando anche il tanto girato dei cinegiornali creati da Andrè Citroen negli anni ’20….
In un certo modo, è la chiusura del cerchio, per tutti: della miriade di documentari dedicati a Fiat da Luca Comerio in poi, mi piace ricordare “Tutto era Fiat” e “Alla Fiat era così” entrambi di Mimmo Calopresti, che tra ’89 e ’99 raccontano la fine di un mondo attraverso il mutare della fabbrica fordista e dei suoi protagonisti, spesso su fronti contrapposti. Un cambiamento ambiguo, riassunto al meglio da “Signorina Fiat” di Giovanna Boursier… E, guarda caso, documentari pensati, inevitabilmente, “anche” per la televisione…

(continua…)

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