Quando il Rally era sempre un’avventura
Vi siete mai chiesti che cos’erano e com’erano i rally nella loro fase pionieristica? Per collocarci nel tempo, diciamo fino ai primi anni ’60. Siamo abituati ad assistere ai rally di oggi veloci, tecnologici e di chilometraggio contenuto. E probabilmente, da appassionati, conosciamo la storia recente e magari siamo anche nostalgici dell’epopea d’oro degli anni ’80, quella dei Gruppi B, tanto per intenderci, in cui le gare erano tanto massacranti quanto emozionanti.
Ma prima com’erano all’inizio i rally?
Beh, erano sostanzialmente delle lunghissime prove di durata in cui non era essenziale la prestazione pura, ma si vinceva grazie alla resistenza ed all’affidabilità delle vetture ed alle capacità dei piloti di superare tutte le avversità che potevano incontrare. Sì perché allora i rally erano dei veri e propri “viaggi-avventura” di migliaia di chilometri, senza quello spirito tremendamente agonistico e velocistico che caratterizza questo sport negli ultimi decenni. Tanto per dare un’idea, si parlava solitamente di 4-5000 chilometri a gara, non meno…
Ma quello che sconvolge di più è che in quei tempi la regolamentazione tecnica e sportiva era decisamente scarna, senza limiti di partecipazione né classificazione di vetture. Diciamo che partecipava chi voleva. Ma soprattutto le vetture partecipavano ai rally praticamente “come uscite di fabbrica”, con una preparazione “racing” assolutamente minima. E per “racing” si intendevano essenzialmente i fari supplementari (per poter affrontare efficacemente le prove notturne), le protezioni sotto scocca (per ripararsi dagli urti verticali) e ovviamente una preparazione del motore, che tuttavia non era particolarmente spinta perché l’obiettivo non era tanto andare forte quanto piuttosto arrivare in fondo a queste “maratone”.
Nessun roll-bar dunque. E nessun equipaggiamento specifico in nome della sicurezza, né per la vettura né per gli equipaggi che correvano con abbigliamento libero, proprio come in un viaggio. Una follia, se la pensiamo con la mentalità degli ultimi anni…
E chi partecipava a questi rally? Innanzi tutto erano esclusivamente partecipazioni private, senza alcun coinvolgimento delle case costruttrici che erano ancora ben lontane dal percepire il potere di marketing di questa disciplina sportiva e del Motorsport in genere. Gentlemen con la passione per le corse e lo spirito dell’avventura, adeguatamente dotati di tempo e disponibilità economiche per affrontare queste avventure.
E le vetture con le quali partecipavano, spesso, non avevano proprio nessun appeal corsaiolo. Anzi, erano vetture di classe, eleganti, di proprietà di questi gentlemen drivers appassionati. Aston Martin, Jaguar non tanto nei loro modelli sportivi quanto spesso come berline di classe. E poi le mitiche Renault Dauphine e Citroen DS.
In questa fase pionieristica dei rally c’è una storia che, credo, esemplifica piuttosto bene l’atmosfera e lo spirito dell’epoca. E’ la storia di Paul Coltelloni, imprenditore francese (di origini chiaramente italiane) nel settore calzaturiero con l’hobby delle corse, o meglio, dei rally così com’erano allora. Monsieur Coltelloni, dopo aver partecipato al Rally di Montecarlo nel ’56 e nel ’58, decise di iscriversi (ovviamente a titolo privato) all’edizione del 1959. E come vettura scelse la Citroen ID 19 che aveva regalato alla moglie. Meno potente ma più agile della DS con cui aveva corso l’anno prima, e quindi teoricamente più adatta ad affrontare le strade alpine innevate. Ovviamente la portò a correre così com’era, senza modificarla con nessun equipaggiamento di sicurezza. D’altra parte non era obbligatorio. Anzi, visto che di caschi non se ne parlava ancora, Coltelloni si equipaggiò con un particolarissimo cappellino “alla Sherlock Holmes” che lo fece notare da tutti i giornali dell’epoca. Una pennellata di originalità…
E poi, per meglio suddividere la fatica, Coltelloni ebbe la trovata innovativa di correre affiancato da due navigatori, anziché uno solo, senza prestare tanta attenzione all’aumento del peso. Pierre Alexandre e Claude Desrosiers condivisero l’abitacolo con lui in questa avventura, partenza da Parigi e obiettivo il lungomare di Montecarlo. Anche da questi dettagli (il motore meno potente, il peso in più) ci si rende conto dello spirito profondamente diverso dei rally di allora e soprattutto che l’obiettivo unico era davvero solo ed esclusivamente “arrivare in fondo”. Senza meccanici ai fine prova oppure nei parchi assistenza. Sempre soli. Benzina ogni tanto, rigorosamente ai distributori, e via, rispettando le tabelle orarie.
E Coltelloni e i suoi due coequipiers arrivarono davvero in fondo per primi in quel “Montecarlo”, portando per la prima volta una Citroen al vertice di un rally internazionale. Era già successo che ottenesse buoni risultati nel passato, ma mai era riuscita a conquistare una vittoria. Non solo, con quella vittoria Coltelloni gettò le basi per il titolo europeo che arrivò al termine di una stagione trionfale per lui.
La Citroen che, come tutti i costruttori, non aveva mai “spinto” tanto le avventure rallystiche, tra l’altro conscia dei limiti prestazionali delle proprie vetture rispetto alle più blasonate Jaguar e Aston Martin, prese coscienza dell’importanza di questo evento e della relativa vittoria. Soprattutto dopo un Rally di Montecarlo, massacrante non solo per il chilometraggio, ma anche per l’alternarsi di condizioni meteorologiche che avevano reso le strade estremamente insidiose. E fu l’inizio di un interessamento, dapprima a scopi mediatici e di marketing, che gettò poi le basi per un coinvolgimento diretto tecnico-sportivo con la nascita dei primi “Reparti Corse” interni alle case costruttrici.
Citroen pubblicizzò enormemente la vittoria al Montecarlo, anche perché si rese conto dell’importanza strategica di un’impresa che esaltava le doti di resistenza della propria vettura. E poi capì, in anticipo su altri, che il pubblico di appassionati stava diventando numeroso. Sia sulle strade che a seguire l’andamento della gara sui mezzi di informazione. E allora uscirono pagine pubblicitarie sui principali giornali, articoli sui giornalini commerciali interni, anche un fumetto che narrava le gesta dei tre eroi con i disegni di Jean Gratton.
E fu, di fatto, l’avvio di un’epoca nuova dei rally. Quella che superò la fase pionieristica e, facendo seguito al coinvolgimento progressivo delle case costruttrici, implicò anche un’accelerazione regolamentare che definisse in modo più strutturato gli interventi concessi sulle vetture e cominciasse a prendere finalmente in considerazione le tematiche relative alla sicurezza.
Siamo a metà degli anni ’60 e di strada, per arrivare ai giorni nostri, i rally ne hanno fatta ancora molta.
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