Vi racconto il mio Monte-crac quarantaquattro anni dopo

Sono i giorni di Montecarlo, il rally più affascinante della stagione. Non mi sarebbe dispiaciuto partire per il Principato, ma sono chiuso in casa, con febbre, tosse e raffreddore.
Ne approfitto per mettere un po’ d’ordine nel mio studiolo e che cosa mi ritrovo tra le mani? Un ritaglio di giornale del 1973, 44 anni fa. Titolo: “E’ fallita forse anche per colpa mia la spedizione napoletana a Montecarlo”. Firma: Sergio Troise. E’ la ricostruzione d’una figuraccia. Ma è anche la riscoperta di un “dietro le quinte” che, sebbene datato, aiuta a scoprire che cosa si agita alle spalle degli squadroni ufficiali che partecipano alle grandi corse.
Ma andiamo con ordine. Quella edizione del Monte riveste una certa importanza storica per vari motivi: è stata la prima del neonato WRC; per la prima volta una donna (Biche, pseudonimo di Michele Petit, grande appassionata di danza e di auto) si classificò prima; tra i partecipanti c’era anche un giovane Jean Todt. Ciò detto, non fu in verità un’edizione memorabile per l’organizzazione e per la gestione del percorso: su 270 equipaggi partiti, soltanto 51 terminarono la gara. Tra mille polemiche dominarono le Alpine di Andruet-Biche, Anderson-Todt e Nicolas-Vial, classificatesi ai primi tre posti. Ritirato Munari, il migliore degli italiani fu Pinto, settimo con la Fiat 124 Spider, davanti alla Fulvia HF 1.6 di Kallstrom.
Fin qui i grandi. Tra i comprimari, “pazzi” disposti a tutto pur di tentare l’avventura, c’era – come detto – il sottoscritto. Facevo equipaggio, nel ruolo di copilota, con l’amico Rino Giachetta, proprietario d’una bella Fulvia HF 1.6 Gruppo 3. Con noi, altri sei equipaggi della Scuderia Vesuvio, all’epoca molto in vista nelle gare di velocità, ma con scarsissima esperienza nei rallies. E infatti nessuno raggiunse il traguardo.
La nostra tabella di marcia prevedeva partenza da Roma, passaggio ancora più a Sud, con controllo orario a Salerno, e poi risalita verso il Veneto, prima di puntare verso il Principato di Monaco. Da lì, dopo una notte di neutralizzazione, saremmo entrati nel vivo della gara, con le prove speciali più impegnative, Turini compreso. Eravamo eccitatissimi.
A Roma, con nostro grande stupore, trovammo persino un giovane tifoso con tanto di cartello “Forza Vesuvio”. L’avvicinammo, gli chiedemmo chi fosse, e lui si presentò come “Maurizio Addati, lontano cugino di Sandro Munari da parte di madre”. Incredibile… A Salerno, dove ci fu una neutralizzazione, trovammo amici e parenti e facemmo rifornimento di bibite, biscotti e panini… mia madre voleva darmi a tutti i costi un bacio prima che ripartissi, ma gli agenti del servizio d’ordine non volevano lasciarla passare oltre le transenne. Lei non si perse d’animo e urlò: “Ma sono la mamma di Munari!…” E l’agente chiuse un occhio. Anzi due.
Ignari del patatrac che ci attendeva a pochi chilometri dal Principato, arrivammo al CO di Padova con un’unica preoccupazione: i freni. Ma – come scrissi nel mio articolo-testimonianza del ’73 – “…Montecarlo è anche la casa madre che ti aspetta in punti chiave del percorso per qualsiasi esigenza, dal tè caldo alla sostituzione della pompa dei freni, come è avvenuto per noi che a Padova abbiamo trovato due meccanici ad attenderci in periferia per farci strada verso la filiale Lancia con un’altra macchina. Ci hanno guidati nella nebbia e condotti in officina, dove in 15 minuti veniva eseguita, gratis, una riparazione da 40.000 lire”.
Ripartimmo con l’eco dello speaker che informava la folla: …”Ecco la Fulvia HF numero 260 dell’equipaggio italo-francese Giachetta-Truas…” (urlai dal finestrino Troise, Troise, non Truas, napoletano e non francese…).
Fu emozionante anche passare da Cavarzere, il paese di Munari, dove a tutte le Lancia venivano riservate accoglienze speciali, con folla plaudente e tifo da stadio. Alla stazione di servizio il rifornimento di benzina sembrò un pit-stop a Monza, con un addetto alla pulitura dei vetri, uno al tappo, uno al carburante, uno al controllo olio, uno all’incasso e uno che, al momento di ripartire, ci ha dato una botta sul tetto e ha urlato “Via… Via… in bocca al lupo”.
Mancavano pochi chilometri al Principato quando successe il fattaccio: perso il carnet de route. Il CO era lì a pochi metri da noi, ma noi non avevamo più la nostra tabella di marcia. Abbiamo rivoltato la macchina, frugato dovunque, sotto i sedili… niente. Sparita. Unica ipotesi attendibile: caduta nella neve quando ci siamo fermati avendo visto l’auto di due amici della Vesuvio, Ciro Nappi e Marcello Milano, capovolta fuori strada. Credevamo che avessero bisogno d’aiuto, invece erano già scesi dall’auto e se n’erano andati. Nella concitazione la tabella potrebbe essere caduta nella neve.
Il mio (unico) Rally di Montecarlo finì dunque così, troppo presto, ingloriosamente e con tanta amarezza. “Perché – come scrissi all’epoca – al Monte ci si ritira, ma non così”. Unica consolazione: anche a Sandro Munari capitò una cosa simile, in un Rally del Marocco di qualche anno prima.
Lui, però, s’è rifatto alla grande. Mentre io sono ancora qui a scribacchiare di vecchie passioni.

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