Tutti colpevoli nessun colpevole, ovvero “Un Gattopardo” nel motore  

Sarà la lunga contiguità negoziale con la frequente commistione tra dare e avere ma appare di tutta evidenza che l’industria, in questo caso quella dell’automobile, tende a rassomigliare sempre di più alla politica.
Esplode un caso, come il dieselgate, e subito comincia il consueto balletto delle responsabilità che non si riesce mai a capire da che parte stanno quando chi dovrebbe farsene carico giura di essere stato sempre nel giusto. Con le accuse di chi avrebbe dovuto vigilare e invece scopre il problema a comando e di chi avrebbe dovuto fare di tutto per evitarle, ma lo ha fatto solo a parole e sempre tagliando giudizi di condanna nei confronti di altri e distribuendo, non richieste, lezioni di etica.
Così vanno le cose dopo la bomba americana sparata dall’Agenzia americana per l’ambiente (Epa) contro Fiat e quella a seguire del governo francese nei riguardi di Renault. E poi chissà il seguito.
La vicenda non è nuova e non è destinata a concludersi in tempi brevi. Anzi sta proprio in questo sfilacciarsi di prese di posizioni il punto centrale della tecnica che le grandi case costruttrici chiamate sul sinedrio degli accusati mettono in atto per uscirne indenni o comunque tirare lungo nella convinzione che il tempo anzicchè essere galantuomo possa rivelarsi invece distratto e tendenzialmente portato a dimenticare e alla fine anche a perdonare.
Questa tecnica presuppone però il coinvolgimento del maggior numero possibile di accusati di maniera che alla fine il mal comune possa trasformarsi nel mezzo gaudio o anche gaudio intero, dipende. In ogni caso un percorso che risponde alla regola del “tutti colpevoli nessun colpevole”.
Proprio così, come quando in politica scoppia qualche scandalo e quelli che sono chiamati in causa, come prima uscita, dicono di avere fiducia nella giustizia con la quale, naturalmente, stanno collaborando.
Che il dieselgate FCA sia la coda perversa del cambio di guardia alla Casa Bianca, poco importa. Dopotutto, con l’affaire Renault, non ha niente a che fare Trump e Obama, eppure è lì, come a suo tempo lo è stato il terremoto Volkswagen a proposito del quale qualche ministro teutonico dimentica sbadatamente la virtù del silenzio.
A riprova che il problema delle emissioni continua a restare irrisolto nonostante le dichiarazioni di industrie e governi per la semplice ragione che non è stato mai preso di petto e si è preferito, anche da parte di rispettabili aziende, la strada del sotterfugio e della furbizia, altra analogia poco commendevole con la cattiva politica, aspettando che il tempo cancelli o stemperi tutto. Ed è certo che poi tutto tornerà di attualità con altri protagonisti.
Ma per il momento vale la frase di Tancredi, nipote del principe di Salina, nel Gattopardo: “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
C’è solo da chiedersi se questa strategia dell’astuzia a buon mercato sia una buona scelta manageriale. E la risposta e no. Prima la Volkswagen, adesso la FCA se non riuscirà a dimostrare di aver operato nei limiti della legge, poi la Renault e poi altri ancora, tutti saranno costretti a buttare nella fornace delle contravvenzioni milioni di euro o di dollari che sarebbe stato più proficuo e “onesto” destinare alla produzione di motori che non abbiano bisogno di trucchetti per stare all’onore del mondo.
Vedremo se l’ultima lezione servirà. Nell’attesa è lecito nutrire qualche dubbio.

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