Auto e Cinema. Steve McQueen: the man & Le Mans

“Steve McQueen: the man & Le Mans”. È il titolo del documentario di Gabriel Clarke e John McKenna presentato, in prima mondiale, il 16 maggio al festival di Cannes nella sezione Classic e, in anteprima italiana, il 4 giugno, a Bologna, al Biografilm Festival-International Celebration of Lives. Alla proiezione dell’opera – distribuita nel nostro Paese dalla I Wonder Pictures – hanno assistito, secondo gli organizzatori, ben 450 persone !

Sono tante. Avvalorano, il perdurare del mito, o, volando più bassi, dell’affetto, che si conserva per Steve McQueen, attore particolare, uomo spinoso di libero spirito. Un atipico nel panorama hollywoodiano di star e lustrini, che, con quel suo volto scolpito, e le sue poche parole, riusciva, comunque, a dire, e far capire, tutto del personaggio che, di volta in volta, interpretava.

Penso, comunque, di non aver usato a sproposito il termine “mito” per lui anche perché, come tanti eroi classici, se ne andò troppo presto: a 50 anni. Dalla vita ebbe, forse, quello che aveva cercato. Era il 1980, 35 anni fa. Eppure la sua memoria non si è persa. E questo, nonostante sia trascorso un lasso di tempo enorme, se si considera come oggi, e con quale velocità, corre e si brucia, talvolta per autocombustione, l’aspetto umano dell’attore, sul palcoscenico internazionale dello spettacolo che, spesso, come Kronos divora i suoi figli.

Il documentario ripercorre le complesse fasi della lavorazione del film più caro all’attore, “Le 24 ore di Le Mans”, del 1971, firmato da Lee H. Katzin ma, di fatto, voluto, impostato, e sovvenzionato, fin quasi a rischiare la bancarotta, da McQueen stesso.

Per comprendere il perché di questa sua scelta di produrre un film sulle corse, ricordo che McQueen più volte, tenne a sottolineare che la sua professione d’attore era parallela a quella di pilota d’auto e moto. Una carriera onorevole questa in cui colse diversi successi. Tra questi, il più noto, conseguito nel 1970, alla 12 ore di Sebring, in coppia con Peter Revson, su una Porsche 908 spider. Qui conquistò il primo posto di categoria e il secondo assoluto a poco più di 20” dal vincitore, Mario Andretti, su Ferrari. Ed è da notare come sottolineatura, in questo caso reale, del personaggio che McQueen guidò, durante la gara, con un piede ingessato a causa di un’antecedente caduta da una moto.

Ritengo che McQueen abbia scelto la gara di Le Mans perché questa corsa da 83 anni – tante son state, ad ora, le sue edizioni – rappresenta la summa dell’idea e della malia delle corse. Il suo battito vitale, scandito da 24 tocchi d’orologio, che alza e abbassa il sipario nell’arco di una giornata, l’alternarsi della luce e del buio, le imprevedibili mattane meteo, il caso benevolo o maligno, sintetizzano realtà in divenire che scorre nel dipanarsi della vita: quell’inseguire, seguendolo e perdendolo, il tempo, che a ciascuno è dato nella vita.

Guardandolo mi sono convinto che McQueen volle realizzare questo film per un motivo anche idealistico: dare e fissare in immagini testimonianza di un ambiente, rendendo omaggio a tutti i suoi componenti, lui compreso: dai tecnici ai piloti, dai meccanici alle auto e, anche, al pubblico. Così approntò, si potrebbe dire, un film per addetti ai lavori, o meglio, per tutti quelli che, o da protagonisti o da spettatori, avevano il dono di “capire” – bruciati da un amore esclusivo – il mondo delle corse automobilistiche.

E questo spiega, in parte, perché il film, poi nelle sale, fu un flop clamoroso che mise a rischio sia finanze, sia carriera di McQueen. Perché il pubblico, quello generico, non comprese o, non era in grado di comprendere, che l’attore aveva tentato di trasmettere in fotogrammi in movimento i suoi valori esistenziali. E per il glamour, l’happy end alla Hollywood non c’era posto. Perché la vita è quello che è, sembra dire, ancora a tutti noi, oggi, McQueen quando guardiamo una foto del suo volto.

Ma l’esiziale debolezza dal punto di vista commerciale del film, nel tempo, si è ribaltata in forza ed è divenuta, adesso, valore a tutto tondo. Oggi è un veritiero documento storico di un contesto – le corse dell’inizio anni ’70, in cui conta tutto sommato, poco l’artificio filmico della trama narrata, perché è quello che viene fatto vedere che è importante.

E lo è restato, al punto che è nata l’idea di un’esegesi, lo spiegare perché e percome di com’è stato realizzato il film, appunto il documentario “Steve McQueen: the man & Le Mans”.

Prima di sintetizzare la trama e scrivere delle scene che più mi han colpito del film invito chi volesse saperne di più sulla fascinosa storia delle 24 ore di Le Mans a leggere il notevole articolo dell’11 giugno di Giorgio Ferro, proprio qui, su Autologia.net.

La vicenda di “Le 24 ore di Le Mans”, è quella di un pilota, interpretato da McQueen, che ritorna a correre sul circuito francese dopo essere stato vittima, in una precedente edizione, di un incidente nel quale ha perso la vita un suo collega. Prima, e durante le soste della gara, s’incontra con la vedova dell’uomo: con lei riflette sul senso della professione di corridore. Nella corsa compete con la Gulf Porsche 917 n. 20 con la quale si distingue sino a quando, alla fatidica tredicesima ora, un incidente lo esclude dalla gara. Ma le esigenze di scuderia lo fanno tornare in pista su un’altra vettura del team. Con questa, controllando il principale avversario, al volante di una Ferrari 512 S, decide, infine, di far vincere, pur potendolo lui stesso, il suo giovane compagno di squadra.

Tutto Qui. Ma in questo, c’è, però, molto che vale la pena di vedere, secondo i gusti. Per chi, come me, apprezza il lato romantico, è bella la scena di apertura quando McQueen arriva a Le Mans e gira, su una Porsche 911 S stradale, per la bella città. Alla fine giunge alla pista. Si ferma dove è accaduto l’incidente. Ricorda la tragedia. Solo una voce narrante fuori campo spiega. Il resto è il volto di Mc Queen e le immagini dell’impatto, ma anche la semplicità del tutto, compresa la piccola sacca in cui il pilota porta le sue cose. E, ancora, i momenti del via della 24 ore quando, in alternanza, alla visione del grande orologio che divora i secondi che mancano al calar della bandiera a scacchi, al ruggito dei motori si sovrappone, sino a dominarlo, quello del battito del cuore dei piloti che si amplifica e aumenta nel ritmo. E, poi, le fugaci scene notturne del “circo” che circonda, già allora, la competizione. Il pubblico piazzato ovunque, le tende in cui si è accampato, i baracchini che vendono cibarie e altro e, soprattutto, una giostra che, con tenue luce, gira quasi sospesa nel buio. Ma per chi ama le gare e le auto ritengo siano imperdibili le scene dei box, oltre a quelle, ovvio, delle auto in pista. Qui il regista e Mc Queen rendono davvero omaggio a chi lavora nelle corse. Esemplificativo il rumore degli strumenti elettrici che avvitano le ruote, l’affannarsi dei meccanici per controllare e aggiustare, la visione degli interni delle auto, la loro faticata sporcizia dopo ore di gara, la stanchezza che, nel fluire delle ore tempo, segna tutti e, ancora, la quasi francescana sobrietà dei luoghi di riposo: modeste roulotte e mense tristi che vorrebbero essere ristoranti.

Da tutto questo visibile si capisce come e quanto questo film sia una dedica partecipe di McQueen a un mondo che era una delle ragioni più importanti del suo vivere.

E sul suo mito aggiungo un’ultima annotazione, citando tre casi. Il primo: nel 1997, al debutto della Ford Puma, il testimonial dello spot pubblicitario di presentazione è proprio lui. Questo, reso possibile attraverso un complicato lavoro di copia incolla, lo vede, redivivo, guidare il piccolo coupè in California. L’auto arriva, infine, in un garage dove, si vedono due compagne di lavoro filmiche dell’attore: una replica della moto de “La grande fuga” (1963, regia John Sturges) e la Ford Mustang GT del 1968 di “Bullit” (1968, regia Peter Yates). E’ un attimo: McQueen le guarda e poi scompare. In campo rimane solo la Puma.

Gli altri due casi sono di casa nostra. Entrambi riguardano Vasco Rossi: Chi non ricorda la sua “Vita spericolata”? Ma il cantante cita McQueen anche in un’altra sua, meno nota, canzone, “Un gran bel film”.

Chiudo con una battuta de “Le 24 ore di Le Mans”. E’significativa sia del senso dell’opera sia, ritengo, di come intendeva la vita McQueen. La pronuncia parlando con la vedova del pilota. La donna domanda: “Cosa può esserci di così importante nel correre più veloce di chiunque altro?”. Risposta: “Correre è importante per chi lo fa bene, quando uno corre, vive… e tutto quello che fa prima e dopo è solo attesa”.

 

 

 

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