(più di) Sette domande ad un appassionato di caccia grossa

Oggi parliamo di caccia, soprattutto di caccia grossa.

Oggi parliamo di fuoristrada: Willy’s, Land Rover, Land Cruiser, Uaz, Campagnola …

Perché i fuoristrada per un cacciatore di caccia grossa sono davvero degli indispensabili compagni di viaggio e di avventure

Storie di caccia quindi, ma storie di jeep con la j minuscola, storie di viaggi e di avventure dal sapore di esplorazioni

Storie incredibili ma vere, storie di altri tempi ma storie di un cacciatore di oggi, di casa sulle strade più impervie, nei mondi più remoti

Ascoltarlo è fare un viaggio nel tempo e in luoghi sconosciuti ai più.

Un incrocio tra Hemingway e Marco Polo 

Con anche una inaspettata intrusione nel circuito di Le Castellet, e un ricordo affettuoso dell’indimenticato Michele Alboreto

Ci sono tanti modi, tante angolazioni per leggere queste memorie.

Chi avrà la pazienza di seguirle sarà ricompensato da storie autenticamente incredibili, e a modo loro bellissime

Per ritrosia e riservatezza il nome dell’intervistato preferisce non appaia

Buona lettura !

 

1- la tua prima auto

Era una Jeep Willys della seconda guerra mondiale, una vera icona che mi rammarico di non aver potuto conservare.

Era un’auto “non ufficiale”, nel senso che non avevo ancora la patente, con la quale potevo girare tra le colline ricoperte d’erica della Scozia, respirando la prima vera sensazione di libertà;

la usavo all’interno della nostra proprietà ma se andavo al paese vicino nessuno mi diceva nulla perché il poliziotto era un cacciatore e pescatore amico di famiglia; a quei tempi si poteva ….

2 – la tua strada del cuore

La strada che porterò per sempre nel mio cuore è legata agli anni che ho trascorso in Scozia, durante la mia gioventù; è la strada che costeggia il fiume Avon, partendo dal villaggio di Tomintoul, sui monti Grampiani, e raggiunge Glenlivet, patria della omonima distilleria di whisky.

La casa che ho abitato molti anni, Kylnadrochit Lodge, era dall’altro lato del fiume, poco distante dall’abitato di Tomintoul; per raggiungerla bisognava attraversare un ponte di pietra.

Tutte le mattine partivo di buon’ora, quando faceva ancora buio, a bordo della mia Jeep Willys gialla, per raggiungere i “miei” posti di caccia, alcuni dei quali situati a poca distanza dalla strada, altri sulle magnifiche alture che costeggiavano la “mia” strada del cuore.

Conoscevo ogni curva, ogni angolo, eppure ogni mattina percorrevo quella strada con rinnovata emozione, aspettando che un animale attraversasse la strada o sbucasse in una radura, oppure semplicemente pensando e ripensando ai miei programmi per la giornata.

Al mattino cacciavo i caprioli e durante la giornata mi fermavo a pescare lungo il fiume; pranzavo con degli ottimi tramezzini portati da casa e nel pomeriggio riprendevo le mie attività di caccia e pesca fino al mio rientro a casa per la cena; ma la mia giornata non era finita qui; sovente ritornavo a caccia approfittando del chiarore delle giornate scozzesi durante l’estate;

là fa chiaro fino alle 11 di sera.

Quella strada è e rimarrà un sogno; quando dopo tanti anni volli rivederla provai una grande delusione;

Mi incamminai nella foresta di Shenval alla ricerca della grande roccia sulla quale mi appostavo a buio ogni mattina e…. quella roccia non esisteva più….

Nella “mia” radura era sorta una grande e moderna distilleria di Whisky.

Nulla sarà mai come prima, ma per fortuna esistono i ricordi e… i sogni !

3 – La Land Rover, per un cacciatore cosa rappresenta? Un’avventura che vuoi raccontarci – (Zimbabwe)

La Land Rover è stato un mezzo straordinario, una vera e propria “icona” della conquista dell’Africa da parte degli inglesi e non solo, un fuoristrada dalle straordinarie doti di semplicità e praticità che ha permesso a tanti esploratori, cacciatori e conquistatori di spingersi fin nelle più remote zone africane.

La prima serie della Land Rover nasce nel 1948 col preciso intento di contrastare il predominio della Jeep Willys americana che era stato il veicolo simbolo della seconda guerra mondiale; la sua semplicità costruttiva e soprattutto la sua leggerezza e la sua maneggiabilità fanno sì che essa raggiunga ben presto lo scopo per il quale era stata creata.

Posso quindi dire che la Land Rover ha fatto parte per molti anni della mia “carriera” di cacciatore, fino a quando la Toyota Land Cruiser è arrivata a sostituirla; difficile dunque per me legare una singola avventura di caccia alla Land Rover perché di avventure ne ho vissute tantissime a bordo di quel veicolo straordinario.

Sarebbe impietoso e ingiusto raccontare di quando la mia Land Rover ha smesso di funzionare; ingiusto perché quando ciò è capitato il guasto è sempre stato riparato con successo e mai una Land Rover mi ha “lasciato a piedi”.

Racconterò dunque un’avventura curiosa tra le tante capitatemi

Mi trovavo in Zìmbabwe a caccia nella savana e intorno a mezzogiorno decidemmo di fermarci per consumare il nostro lunch; terminato di mangiare i nostri panini, il cacciatore professionista e i neri che ci accompagnavano decisero di fare un pisolino; anch’io mi sdraiai accanto a loro ma poi fui sopraffatto da un imminente necessità fisiologica e decisi di allontanarmi di qualche decina di metri per fare i miei bisogni; mentre ero intento a quella funzione, coi pantaloni calati, sentii un sbuffo dietro di me; era un rinoceronte che a testa bassa mi guardava incuriosito

immediatamente tirai sù i pantaloni e mi misi dietro la grossa pianta che mi divideva da lui; “non si sa mai!” pensai.

Attesi qualche minuto e mi incamminai in direzione dei miei compagni ai quali iniziai a raccontare la mia “avventura”; non ebbi bisogno di dilungarmi perché il cacciatore professionista mi indicò subito l’amico rinoceronte che mi aveva seguito; “Let’s go, it’s better !” ci disse; saltammo tutti sulla Land Rover e partimmo.

Raggiungemmo di lì a poco un’altura, fermammo l’auto e iniziammo a cacciare salendo sul costone roccioso davanti a noi; i nostri accompagnatori rimasero accanto all’auto.

Passammo un paio d’ore sulle tracce di un kudu che dopo averci visti si dileguò e quando il sole cominciò a calare decidemmo di rientrare alla macchina; giunti nei pressi di dove avevamo lasciato la nostra Land Rover guardammo in basso e vedemmo la nostra auto capovolta e i neri arrampicati su di un albero vicino; il “nostro” rinoceronte aveva deciso di incornarla, capovolgendola sul fianco; i neri non sembravano terrorizzati ma anzi, divertiti; avevano lasciato l’auto in quella posizione perché temevano che il loro capo non li credesse.

Ci accingemmo subito a capovolgere la nostra Land Rover e rientrammo al campo, arricchiti di una strana avventura da ricordare.

Anche in quel frangente la Land Rover si dimostrò all’altezza dello scopo per il quale era stata creata; dubito che se avessimo avuto una Land Cruiser saremmo riusciti a rimetterla sulle ruote, ma d’altro canto dubito anche che il nostro amico rinoceronte sarebbe riuscito a capovolgerla con tanta facilità.

4 – e invece una Land Cruiser …? Quell’avventura di caccia nella Repubblica Centrafricana

L’avventura che avrei scelto è legata proprio a un problema avuto con una Land Cruiser nella foresta della Repubblica Centrafricana;

Lascio al lettore decidere se il problema sia stato della Toyota o del conducente.

Durante un lunghissimo trasferimento dalla zona di caccia al campo, attraversando con la nostra Land Cruiser zone di savana con erbe altissime che arrivavano oltre il finestrino, la mia guida di caccia, amico di lunga data, si accorse che la temperatura dell’acqua era salita tantissimo; decise dunque di fermarsi per controllare e appena la vettura fu ferma tutti notammo una importante nuvola di fumo che si alzava dal cofano.

Jacques, così si chiamava la mia guida, alzò il cofano e fu assalito da una nuvola di fumo che proveniva dal radiatore; non potendo aprire il tappo rovente con le mani chiese agli uomini una pinza e con questa si accinse ad aprirlo; lo scoppio fu violentissimo e il povero Jacques fu buttato a terra da una nuvola di vapore incandescente; il tappo era partito come un proiettile e lo aveva ferito al volto.

Pur essendo impressionabile, cercai di mettere da parte le emozioni e mi precipitai a soccorrere il mio povero amico; intorno a noi si erano radunati gli uomini increduli e costernati; il povero Jacques giaceva a terra col volto insanguinato e il corpo ustionato; gli strappai di dosso ciò che rimaneva della camicia, chiesi agli uomini di inumidire con l’acqua di scorta degli strofinacci e glieli appoggiai sul petto dolorante; Jacques era cosciente ma in preda a un lamento costante; dissi agli uomini di tagliare dei rami con le foglie per creare un giaciglio sul quale adagiarlo, quindi frugai nella cassetta degli attrezzi dove trovai una lattina d’olio per auto; dopo aver adagiato il povero Jacques sul giaciglio di foglie, gli disinfettai le ferite al volto e gli cosparsi il petto con l’olio della lattina, lo adagiammo poi su un altro letto di foglie predisposto all’uopo sul retro della Land Cruiser.

Feci cenno a tutti di salire e mi misi alla guida ma, prima di mettere in moto l’auto volli controllare il radiatore; era quasi vuoto d’acqua e ancora bollente; chiesi agli uomini di riempirlo con la poca acqua che ci rimaneva e poi mi misi a ripulirlo dalla enorme quantità di erba e semi che aveva accumulato sul frontale; era stata questa la causa del surriscaldamento e dell’incidente che ne derivò.

Il ritorno durò molte ore; alla prima acqua ci fermammo per riempire completamente il radiatore e rinfrescare il corpo di Jacques; ogni tanto ci fermavamo quando la temperatura dell’acqua raggiungeva la soglia critica.

Giungemmo al campo a tarda notte e Jacques fu condotto nella sua tenda in attesa dell’aereo che sarebbe venuto a prelevarlo; tutto finì bene, per fortuna ma da quella avventura imparai che non sempre i problemi dipendono dalle auto, molto spesso dipendono dall’uomo.

A tal proposito mi viene da citare la frase che un giorno un mio amico pilota d’aereo mi disse:

“La gente è convinta che il 90 % degli incidenti aerei avvengono per causa del pilota; noi piloti diciamo che non è vero, perché secondo noi il 100% degli incidenti avviene per causa del pilota”.

Una frase che fa riflettere !

5 – Quella volta che ti han detto sali e …(Tajikistan, confine con Afganistan )

In realtà ci fu anche una volta in cui dissero a me “scendi, scendi in fretta !”; eravamo in Tajikistan, al confine con l’Afghanistan lungo il corridoio di Wakhan, la stretta striscia di territorio afgano tra il Tajikistan e il Pakistan.

Stavamo percorrendo la strada lungo il fiume Panj e ci fermammo a fotografare una carovana di nomadi che, al di là del fiume in territorio afgano, trasportavano i loro accampamenti sui dorsi di una lunga fila di cammelli; una immagine molto suggestiva.

Improvvisamente alcuni di loro, infastiditi dalla nostra presenza (eravamo peraltro a un centinaio di metri) aprirono il fuoco con i loro Kalashnikov, prima sparando in aria e poi abbassando il tiro e colpendo il paraurti del nostro van.

Immediatamente il nostro autista ci gridò “saltate fuori e buttatevi nel fosso, presto!”; così facemmo, rimanendo nel fosso fino al passaggio della carovana e…anche per qualche tempo in più !

6 – un pilota, un driver che vuoi ricordare, usciamo per un attimo dal terreno di caccia –

Non ho conosciuto molti driver di valore nella mia vita, anche perché non sono mai stato un grande appassionato di automobili; quello che voglio ricordare è Michele Alboreto, un ragazzo semplice e molto gradevole nonché un ottimo pilota; anche se fu nella squadra Ferrari (che ho sempre odiato in quanto emanazione Fiat e produttrice di auto per me un po’ volgari) l’ho sempre apprezzato per la sua umiltà, che conservò anche quando fu immerso in un mondo con il quale aveva ben poche cose da condividere.

Andai con Michele a Le Castellet e provai la straordinaria emozione di girare in pista con una Formula 1; molti miei amici sarebbero impazziti per riuscire a fare una cosa del genere ma per me, non grande amante delle auto, fu solo una emozione.

Dopo mille difficoltà alla partenza (mi si spegneva continuamente il motore) finalmente riuscii a lanciare l’auto sulla pista e cominciai a girare “spingendo” sempre di più; in rettilineo spingevo l’acceleratore a fondo ma, appena vedevo la curva in lontananza lasciavo il piede e cominciavo a frenare; Michele mi disse di non fare bruschi spostamenti di direzione e di guardare sempre negli specchietti; lui, quando io rallentavo, mi sfrecciava di fianco a pochi centimetri e continuava nella sua folle corsa; cercando di imitarlo finii un paio di volte “lungo” nella sabbia ed ebbi bisogno del carro attrezzi per rimuovere la mia auto.

Ci avevo preso gusto e pian piano iniziammo a prendere i tempi; certo che Michele me ne dava di secondi ad ogni giro !….

Sulla “mia” F1 che proprio mia non era…..ma di Jacques Laffitte

Poi Michele mi chiese se volevo andare con lui in auto; “come faccio ?” gli chiesi “a cavallo del motore ?”; “no”, mi disse lui “ti porto su una Porsche Le Mans”; e così fu….. Con Alboreto sulla Porsche Le Mans. Salii su quel bolide con rinnovata emozione;

Michele si mise alla guida accanto a me e mi raccomandò di rilassarmi e di non preoccuparmi se il mio casco sbatteva contro il suo; subito non capii perché ma poi mi resi conto dell’effetto della forza centrifuga nelle curve per uno che come me non era abituato.

Dopo un paio di giri durante i quali capii che la guida di un professionista è altra cosa, Michele, urlando forte, mi chiese: “tutto a posto ?”; “si!” gli risposi; “allora possiamo andare” ribatté lui.

Quei giri iniziali che per me erano già a tutta birra non erano nulla rispetto a ciò che provai dopo; arrivati alla prima curva dopo un lungo rettilineo pensai “siamo morti ! È matematicamente impossibile che questo riesca a stare in pista !” ; e invece ci riuscì, come peraltro riuscì a terrorizzarmi.

Una esperienza davvero indimenticabile, un’ebbrezza unica che ricorderò per tutta la vita.

Grazie caro Michele, sei stato un grande !

7 -in viaggio sulle tracce di Marco Polo … in Pamir con la UAZ …

Senza un’automobile, una mitica UAZ in questo caso, non avrei potuto raggiungere gli sconfinati spazi dell’altipiano del Pamir, da tutti conosciuto come “tetto del mondo”, sulle tracce del Marco Polo, un grande muflone che vive in quei posti a oltre 4.000 metri di altitudine.

Per raggiungere quelle remote zone di caccia ci si deve preparare a viaggi interminabili a bordo delle UAZ, fuoristrada di fabbricazione russa non certo confortevole ma estremamente affidabile e semplice da riparare in caso di guasti.

Le strade di accesso sono due: una parte da Osch in Kirghizistan e dopo aver attraversato la frontiera col Tajikistan prosegue salendo rapidamente lungo il lago Karakul fino a raggiungere il villaggio di Murgab; l’altra parte da Dushambé, costeggia il confine con l’Afganistan per raggiungere Chorog, da dove si inizia a salire verso l’altopiano del Pamir; da qualunque parte si passa il tragitto dura più di 20 ore, anche a causa dei numerosissimi posti di blocco che si devono attraversare.

Le ho percorse entrambe, più volte, alla ricerca del mio animale preferito, il Marco Polo che ho cacciato a quote comprese tra i 4.500 e i 5.500; a quelle quote non si può pensare di utilizzare i cavalli, non ce la farebbero; dunque tutto a piedi ma con estrema calma per evitare di disperdere energie, che non si recuperano più.

Ci vogliono alcuni giorni di acclimatamento prima di iniziare la caccia salendo a piedi sulle montagne che per fortuna non sono molto ripide.

Un’auto a carburatore non funzionerebbe a quella quota, dunque le UAZ diesel sono le auto ideali per andare “sulle tracce del Marco Polo”.

8 – una sosta inaspettata, quella volta in Kenia che …

Ero appena giunto in Kenya a Mombasa e mi apprestavo a raggiungere la zona prescelta per il mio safari di 15 giorni, lungo il confine dello Tsavo;

era il 1976, l’ultimo anno in cui in Kenya si poteva cacciare ed ero abbastanza eccitato per questa mia avventura.

Lasciammo l’aeroporto di Mombasa dove gli organizzatori erano venuti a prenderci e proseguimmo sulla strada in direzione di Voi; le strade erano quasi deserte; giunti nei pressi di Mackinnon Road abbandonammo la strada principale e proseguimmo lungo una comoda pista;

dopo pochi chilometri, all’incrocio con un’altra pista, deserta anche quella come la nostra, ci imbattemmo in una Land Rover che conduceva anche quella alcuni cacciatori a un campo di caccia; nessuno dei due conducenti sembrava intenzionato a lasciare il passo all’altro e lo scontro fu inevitabile, uno scontro peraltro senza grosse conseguenze per i veicoli.

Nessuno dei due autisti sembrò deciso a risolvere la situazione in modo amichevole; noi cacciatori proponemmo di pagare a metà il danno, peraltro limitato ma non ci volle nulla da fare;

fermarono un motociclista di passaggio e gli dissero di chiamare la polizia; il poliziotto arrivò dopo circa un’ora di attesa e, dopo aver esaminato il problema ci annunciò che dovevamo andare a processo; mi tremarono le gambe; il mio safari tanto agognato rischiava di terminare lì.

Il poliziotto ci ricondusse a Mackinnon Road dove sostammo in un bar in attesa del giudice, il cui arrivo era previsto per le 14.00; e…., stranamente così fu; il giudice, un nero grassone, ci condusse in tribunale dove, indossata la classica parrucca bianca (la sua era gialla e sporchissima), salì su uno scranno di mogano e dopo aver recitato alcune frasi di rito iniziò a interrogare i presenti.

Dopo un’attesa di una decina di minuti dedicati a scrivere (presumibilmente la sentenza) il giudice disse a tutti di alzarsi in piedi e, con tono solenne, promulgò la sentenza che comportava il pagamento di 100 scellini all’autista che a suo avviso aveva torto.

Erano le 15.00 e il caso era chiuso; potemmo quindi riprendere la nostra strada, sollevati e contenti.

Racconto spesso questo episodio a chi, come me, condivide la grande ammirazione che personalmente nutro per gli inglesi che sono stati in grado di esportare nelle loro colonie le basi della loro grande e antica democrazia e della loro proverbiale civiltà. In Italia un processo avrebbe potuto durare decenni e io sarei tornato a casa a bocca asciutta.

9 – quel viaggio in Mongolia, quell’avventura tra Uaz e Campagnola

La Mongolia è stata per me terra di grandi avventure, sia di caccia che di lavoro; è una terra meravigliosa e affascinante che mi rimarrà per sempre nel cuore e tante, tantissime sono le avventure che ho vissuto là e che vorrei raccontare ma, visto che si parla di auto, ne racconterò una non così entusiasmante ma sicuramente “in tema”.

Premesso che la mitica UAZ russa sta alla Mongolia come la Land Rover sta all’Africa, venni incaricato da un importante gruppo tessile italiano, di organizzare un evento premio sul tema del cashmere, la preziosa fibra tessile di cui la Mongolia è rinomato produttore.

L’evento consisteva in una sorta di competizione tra i produttori delle migliori qualità di cashmere, competizione che culminava con l’assegnazione al vincitore di un premio intitolato all’azienda committente; subito mi venne in mente di proporre un premio in danaro ma i responsabili dell’immagine mi dissero che secondo loro era piuttosto banale;

doveva essere qualcosa di “italiano” che fosse al tempo stesso gradito e utile per l’allevatore che lo riceveva; non poteva certo essere un abito né un oggetto prezioso di cui un pastore nomade mongolo non avrebbe saputo cosa farne.

Finalmente saltò fuori l’idea “geniale”: un veicolo fuoristrada, rigorosamente italiano, una “Campagnola” della Fiat; inutilmente mi profusi in mille obiezioni; l’unico fuoristrada adatto alla Mongolia era una UAZ di cui si trovavano i ricambi in ogni angolo e di cui i pastori erano esperti; non ci fu nulla da fare; la famiglia degli imprenditori committenti era legata da amicizia alla “famigerata” famiglia torinese ed ebbe uno sconto importante su una fiammante “Campagnola”.

Non oso pensare a quante UAZ si sarebbero potute comperare con il costo di quella Campagnola trasportata fino in Mongolia e omologata in quel paese.

Il mitico “oggetto” avrebbe dovuto arrivare in Mongolia in Luglio, perché la premiazione doveva avvenire in occasione del Naadam, la festa nazionale mongola; invece arrivò a inizio dicembre perché ci volle una interminabile sequela di pratiche burocratiche per importare in Mongolia l’unica Campagnola della storia;

“Pazienza !” mi dissero “la consegna del premio avverrà in Dicembre e sarà un evento magnifico, sotto la neve…” commentarono gli ineffabili pubblicitari che si occupavano della faccenda.

Partimmo dunque da Ulaanbaatar a metà Dicembre con la fiammante campagnola facente parte della carovana di UAZ che ospitavano il sottoscritto, la troupe di fotografi e pubblicitari, le guide, gli accompagnatori e gli organizzatori; faceva freddo ma non particolarmente freddo per quell’epoca dell’anno; a Ulaanbaatar c’erano – 20° ma nel deserto del Gobi le temperature sarebbero sicuramente state più rigide.

Ci fermammo a metà strada in un comodo accampamento di jurte organizzato per l’occasione, comodo per me che da buon cacciatore ero abituato a quel genere di cose, ma non certamente per la squadra degli italiani, costretti a uscire all’aperto a – 30° per fare i loro bisogni.

La mattina seguente c’erano -32° e i gli autisti delle UAZ uscirono per scaldare con la fiamma di gas le coppe dell’olio dei loro veicoli; mi posi subito il problema della Campagnola che era l’unico fuoristrada alimentato a benzina e mi raccomandai all’autista di essere molto prudente con la fiamma; tutte le UAZ, prima l’una poi l’altra, accesero i loro motori ma la mitica Campagnola non accennava a mettersi in moto;

aperto il cofano scoprimmo che lo spinterogeno era andato in mille pezzi; la plasticaccia Fiat di cui era fatto non aveva resistito a quelle temperature.

Che fare ?

Neanche parlarne di cercare un ricambio ma…. la Campagnola era indispensabile per la cerimonia della premiazione; dovemmo quindi trainarla per tutto quel giorno interminabile sulle piste della Mongolia; arrivati a destinazione e ripulita la Campagnola a dovere, furono prese mille foto di quell’avvenimento; l’obiettivo finale voluto dai pubblicitari era stato raggiunto.

Peccato che quella mitica Campagnola fu abbandonata là, nel piccolo accampamento di jurte; la ritrovai tantissimi anni dopo, quando passai da quelle parti a caccia; di lei non c’era quasi più niente; le ruote erano state tolte e il veicolo giaceva su alcune pietre; neppure le porte c’erano più, forse utilizzate come ante per gli arredi delle jurte; un gatto scappò dal vano del motore vuoto; il motore non c’era più, forse era stato destinato a qualche fine più nobile e più produttivo;

quello fu l’ultimo ricordo dell’unica Campagnola che giunse in Mongolia.

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