Sette domande a Vittorio Manganelli
Vittorio Manganelli è un critico enologico di fama, per passione e competenza. Conosce i vini delle Langhe come pochi altri. Il suo hobby preferito è assaggiare i vini alla cieca (…anche se raramente li indovina).
Ha pubblicato l’Atlante del vino italiano, di cui esce in questi giorni la terza edizione.
Roccioso e competente, indipendente e ironico. È nato da una vigna buona!
1- La tua strada del cuore
Quella che va da Barolo a Barbaresco passando per Dogliani.
Un’oretta di viaggio in cui si può apprezzare non soltanto la vista di splendidi vigneti ormai famosi nel mondo, ma anche scoprire e osservare le Langhe più povere e a tratti un po’ selvagge, fatte di tanti boschi e di cascine malmesse, quelle che ti fanno venir voglia di rileggere Pavese.
2 – La tua prima auto, un ricordo.
L’entusiasmo per il Sessantotto mi fece compiere un errore che mi costò caro in tutti i sensi: comprai una Skoda coupé rossa (allora di stretta produzione socialista, non era ancora della Volkswagen) che andava come un trattore e consumava come un elicottero. Si guastò un’infinità di volte, raramente riuscii a fare un viaggio tornando a casa senza intoppi e gli elettrauti non sapevano neanche trovare la scatola dei fusibili. Il tutto si concluse con un viaggio a Praga, su una potente Alfa Romeo di amici, dove fui costretto ad andare per comprare un pezzo di ricambio: al ritorno regalai la mia fiammeggiante Skoda a un conoscente sprovveduto.
3 – Una strada tra le vigne, sterrata o asfaltata, che consigli.
Devo segnalarne due. Una è sicuramente la Via dei vini d’Alsazia. Non tanto e non solo per i vini, un po’ troppo ricchi di profumi e spesso un po’ troppo dolcini per i miei gusti, ma per i paesi medievali, castelli e paesaggi tra i più belli del mondo in assoluto. In Francia sono sicuramente più conosciute le aree in cui si producono i celeberrimi Bordeaux e i più raffinati Borgogna, ma nessuna di queste due aree può competere in bellezza con l’Alsazia, che ha un’immagine meritoriamente incantata e un’atmosfera ancora genuinamente immersa nella storia. Arrivare in auto a Riquewihr o a Eguishem dà ancora vere emozioni, anche se l’asfalto è ormai ovunque.
La seconda si trova in uno dei pochi posti al mondo in cui ci sono ancora le bianche stradine sterrate, percorribili con la dovuta cautela, giustamente celebre in tutto il mondo anche per i vini: è il Chianti Classico, con la sua omonima Strada. Sono belle le cittadine, da Greve a Radda a Gaiole, ma è imperdibile la vitalità di una natura ancora poco contaminata dall’intervento dell’uomo, dove spesso i vigneti sono difficili da scovare celati come sono tra boschi e valli. Il turismo, soprattutto americano e britannico, è intenso, ma l’area è così vasta che un viaggio in auto tra queste colline che non finiscono mai è sempre rilassante, sereno, confortante, ti fa avere fiducia nel futuro.
4 – Se un’auto fosse un vino, quale sarebbe?
Faccio una piccola premessa: tutte le tipologie di vino possono essere interessanti e gradevoli per il consumatore, che si tratti di Nero d’Avola o di Gewürztraminer, di Roero o di Etna Bianco. Quello che conta in assoluto è il produttore: se è un artigiano (piccolo o grande non importa), nel senso che mette in bottiglia quello che ricava dalla propria terra, e se lo sa fare bene, in ogni bicchiere si possono trovare motivi di interesse e di piacevolezza. Se si tratta invece di vini industriali, certo ricavati sempre dall’uva ma standardizzati e senz’anima, allora il bere si limita all’assunzione di alcol, il che è per me, e mi auguro per tutti gli appassionati, una pratica da evitare. Scrivendo di assonanze tra auto e vino aggiungerò quindi il nome di una cantina, non per fare pubblicità a qualcuno o perché sia in assoluto il migliore esempio della tipologia, ma perché si tratta di un sorso che mi convince e mi dà piacere, per cui sono lieto di segnalarlo agli amici.
Provo a fare qualche esempio di affinità limitandomi a modelli piuttosto noti e a vini facilmente reperibili, soprattutto piemontesi.
La Fiat 500 Young è un bel Moscato d’Asti, spumeggiante ma non troppo, docile ma aggraziata, poco potente come il poco alcol del vino: Moscato d’Asti Casa di Bianca della cantina Gianni Doglia.
L’Audi A6 berlina mi riporta al Brunello di Montalcino: entrambi sono autorevoli, ricchi di carattere, di precisa eleganza, più che confortevoli senza essere troppo facili: assaggerei volentieri quello di Poggio di Sotto.
Per stare nelle alte cilindrate, la Porsche 911 riporta a un vino grintoso, non molto facile e disinvolto, come è il Sagrantino di Montefalco, ricco di tannini che mi ricordano la grinta dell’auto, consiglio la versione chiamata Collenottolo dell’azienda Bellafonte.
La Smart Fortwo, che a me pare essere sia dinamica che romantica che festaiola, la abbino sicuramente con un vino spumeggiante e contemporaneamente intimista come può essere il metodo classico Valentino Riserva Elena prodotto da Rocche dei Manzoni. In stile analogo, con un tocco di elegante classicità sempre convincente, c’è la Lancia Y, a cui brinderei con l’Alta Langa Brut Zero proposto dalla Enrico Serafino.
La diffusa e ultimamente un po’ scontrosa Renault Clio possiede lo spirito del Grignolino, non così facile e immediato ma di sicura soddisfazione quando è interpretato al livello della selezione del Monferrato Casalese denominata Bricco del Bosco Vigne Vecchie di Accornero.
La Golf ha per me la rassicurante affidabilità e continuità di una grande Barbera, anzi grandissima se si tratta della Nizza Riserva della Famiglia proposta da Coppo.
Il gioco può proseguire e ogni lettore è sicuramente in grado di fare i propri abbinamenti preferiti tra la propria idea di un’auto e quella di un certo vino.
5 – Parliamo di soste in auto durante un viaggio. Una sosta che consigli, per cibo o vino.
Più che un’indicazione precisa, qui mi permetto di consigliare uno strumento. A parte l’evitare di consumare pasti importanti nelle aree di servizio, dove peraltro mi astengo con cura anche da ogni cosa dolce, liquida o solida, in macchina tengo sempre il benemerito volume Osterie d’Italia, pubblicato da Slow Food. E quindi consiglio vivamente a tutti i viaggiatori di sfogliarla (o di aprire l’app): è quasi infallibile.
6 – Un viaggio con un produttore di vini
Uno dei viaggi in auto più lunghi della mia vita l’ho fatto andando sino a Capo Nord con Beppe Rinaldi, barolista di fama mondiale, il grande saggio del vino naturale, l’anarchico fustigatore delle usanze enologiche californiane importate nelle Langhe, il massimo raccoglitore di storie più o meno veridiche sulle tradizioni culturali e non solo del popolo che ha vissuto e vive sulla destra del fiume Tanaro.
Se siete persone armate di una curiosità almeno pari alla pazienza, tentate di avere un colloquio con Beppe, detto Citrico forse per l’acidità che già contraddistingueva la sua parlata ai tempi della Scuola Enologica di Alba. Dopo i primi 500 chilometri mi sono abituato alle sue pause estenuanti, ai suoi occhi che tendono a chiudersi assieme alle labbra, a una flemma – oggi è adattissima alla sua figura di Grande Vecchio, ma tanti anni fa era meno sopportabile – che sembra non andare a parare da nessuna parte ma che invece va a costruire una sua complessa e affascinante visione del modo di vivere, di comportarsi, di gioire e di soffrire che lui vorrebbe vedere realizzata nel mondo, o almeno nel suo mondo langarolo.
Non la farò lunga, ma è stato imbarazzante spiegare ai doganieri svizzeri che tutto quel vino stipato nel bagagliaio non volevamo venderlo ma bercelo tranquillamente sui laghi finlandesi, cosa che poi abbiamo fatto con grandissimo piacere in luoghi magnifici, dopo aver piantato la tenda.
7 – Auto e guide di vini. Viaggi sempre con qualche guida, e quali? O vai alla ricerca del nuovo?
Mi intendo un po’ di vini ma, come succede a tutti, non so sempre cosa ordinare da bere quando sono fuori regione. E quindi, vuoi per la curiosità vuoi perché è di moda bere e mangiare prodotti del luogo, dovendo ordinare un Gioia del Colle o un Vermentino di Gallura mi affido a due guide che tengo sempre in macchina (non uso le app, ma ci sono e mi dicono che ormai funzionano piuttosto bene). Una è Vini d’Italia del Gambero Rosso, che non è affidabile allo stesso modo in tutte le regioni d’Italia ma che è comunque un riferimento che consente di limitare al minimo le spiacevoli sorprese. L’altra è quella di Slow Food, chiamata Slow Wine, un po’ sbilanciata sui vini bio-qualcosa e quindi a volte premiante etichette che non trovo di mio gusto, ma basta leggere le schede e si capisce bene qual è l’impostazione aziendale. Per cui, se mi trovo in un ristorante della Romagna o della Valpolicella, dedico 3 minuti a consultare queste guide e poi faccio stappare. Francamente, non credo nella fortuna sempre e comunque, so quindi che in ogni carta, anche in quelle più belle, ci sono vini che non berrei volentieri, per cui evito di affidarmi al caso e di fare tentativi alla cieca tanto per assaggiare qualcosa di sconosciuto.
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