Dimmi come ti chiami e ti dirò che auto sei

Potevano chiamarla Fido, oppure Billy, o anche Lucilla. Invece hanno scelto Karl. Non è un cucciolo di pastore tedesco, è un’automobile. Tedesca, anche se la fanno in Corea. Nome breve Karl, senza morbidezze. Ma che ha un suo perché. In un mondo, quello delle quattro ruote, che di perché ormai ne ha sempre meno. Ad iniziare proprio dal modo in cui sceglie di chiamare i nuovi modelli che sforna. Un dettaglio? Anche no. E non serve fingere di essere esperti di marketing (ormai chi non lo è?) per immaginare che il nome di una vettura possa incidere molto sul suo successo. O almeno contribuire parecchio al suo insuccesso.

Karl è l’ultima piccola di casa Opel. Marchio che in questo non brilla in originalità, ma almeno ha una sua regola. Ha chiamato la Adam in onore del padre fondatore, Adam Opel, e ha proseguito così anche per l’ultimogenita, marchiata con il nome del figlio di Adam, anche se il legame le due auto non è così stretto. La Karl sostituisce la Agila, che per fortuna loro non era il nome di una sorella della famiglia.

Lo spunto suggerisce una riflessione. Perché insieme alla Karl, in questi giorni debutta anche un altro modello dal nome particolare, la Kadjar di Renault. Che fa sospettare che nelle stanze dei bottoni delle Case automobilistiche lavorino dei cervelli particolari. Come accadde per la Qashqai di Nissan, che scelse per il suo fortunato crossover il nome di una tribù dell’Iran meridionale che sembra uno scioglilingua. Difficile pronunciarlo correttamente da noi, visto che per gli italiani una q non accompagnata dalla u è decisamente illeggibile. Qualcuno pronosticò che Qashqai era un nome talmente brutto che la gente avrebbe evitato di comprarla solo per non doversi ricordare come si chiamava. Pronostico sbagliato, visto che ne hanno vendute (e continuano a vederne) a palate.

Anche Kadjar richiama il nome di un’antica dinastia iraniana, estintasi nei primi anni del Novecento. Renault però spiega la scelta come un gioco di parole tra Kad e Jar. Kad si ispira direttamente al mondo dei “quad”, Jar riprende le parole francesi “agile” e “jaillir”, sintesi di agilità e reattività. Sarà, ma la macchina resta comunque migliore del nome che le hanno scelto.

L’impeto di fantasia catalogabile nella cartella “e questa come la chiamiamo?” comunque non ha confini. E lo stile è molto cambiato nel corso degli anni. Alcune marchi in passato seguivano filoni tradizionali: molti dei veicoli commerciali Fiat ad esempio hanno preso il nome da storiche monete (Scudo, Ducato, Fiorino), Maserati invece sceglieva i venti (Bora, Ghibli, Mistral) e Lamborghini è rimasta fedele per anni ai nomi e alle razze dei tori. Il modello che iniziò questa curiosa tradizione fu la Miura: Ferruccio Lamborghini, naturalmente, era del segno del Toro e appassionato di corride (il logo dell’azienda emiliana è un toro nero) e decise di usare il nome di un celebre allevamento spagnolo per battezzare una delle sue vetture di maggior successo. Come poi la celeberrima Diablo, nome del cornuto (nel senso del bovino) che nel 1869 nella Plaza de Toros di Madrid si scontrò in un duello epico con il torero Jose De Lara detto “el Chicorro”, ma anche la Murcielago, la Gallardo e la Aventador. C’è però una eccezione: la Lamborghini Countach, nome che riprende un’esclamazione in dialetto piemontese che esprime grande stupore. Così almeno dicono.

Già, perché curiosando sulla rete, in tema di auto se ne leggono di tutti i colori. In generale, s’intende. E in particolare sulle ragioni che hanno determinato i nomi di alcuni modelli. Ad esempio, logica e storia indicano che la MiTo si chiami così per l’unione dalle sigle di Milano e Torino, che insieme creano pure un’assonanza epica. Ma che la scelta sia stata suggerita da una signora tedesca ­ – che partecipando al concorso per scegliere il nome della piccola Alfa tra l’altro vinse anche una Spider – lo ignoravamo. Anche perché magari neppure è vero. Come non è probabilmente vero, anche se è verosimile, che a decidere il nome della Fiat Sedici sia stato il figlio di Luca De Meo, ai tempi gran stratega del Lingotto. Lui si arrovellava, passeggiando per casa: una Fiat 4×4, come la chiamiamo? “Ma papà: quattro per quattro fa 16”, disse il pargolo. Elementare. E a De Meo si accese la lampadina. Lui almeno la raccontò così in sede di presentazione. E tutti gli credettero. In fondo non costava nulla farlo.

Vero di certo è invece che le case orientali adottano spesso termini mutuati dalla lingua italiana per battezzare le loro vetture, anche quelle più improbabili, come la Suzuki Cappuccino (è esistita davvero), la Nissan Serena e la Hyundai Lavita, alter ego di quella che fu la nostra Matrix. Tutta ancora da chiarire invece la disputa sulla Sorento, il Suv della Kia, con una erre sola. Qualcuno favoleggia che sia stato un errore del creativo coreano, innamorato della città ma non abbastanza per evitare di storpiarne il nome. Altri dicono che invece fu una scelta voluta (la Murano però l’hanno azzeccata). Chissà.

Gli stranieri comunque non si sono mai fatti troppi problemi con l’italiano. O almeno nel (non) considerare come certi nomi suonassero da noi. Così per anni qualcuno ha sospettato che la Ignis fosse un frigorifero, invece era una Suzuki. E a non valutare che la Toyota Carina, carina non lo fosse affatto. Questione di gusti. Del resto anche la Fiat molto tempo fa ebbe la brillante idea di investire parecchio per il lancio della Tipo nel mercato americano. Quando fecero notare ai grandi capi che negli Stati Uniti, Tipo era la marca di un noto preservativo, ormai era troppo tardi.

Per qualcuno questa cosa dei nomi è davvero una cosa seria. Sul web, il sito Mojomotors tempo fa suddivise 215 nomi in base alla categoria di riferimento, scoprendo che la gran parte delle aziende (21.9%) predilige per i nomi delle auto località geografiche, poi gli appellativi riguardanti l’avventura (19.53%), la natura (14.42%), la cultura (9.76%) ed i trasporti (6.98%). È curioso notare come solo il 2.33% delle denominazioni riguardi l’ambito della tecnologia, materia che sembra non stuzzicare la fantasia degli esperti di marketing: Mojomotors ha incluso nella lista solo la Chevrolet Volt e la Saturn Ion, mai viste da noi (almeno la seconda).

Peugeot invece storicamente ha scelto di dare i numeri per le sue vetture. Scelta non casuale, visto che Peugeot nasce come costruttore di macinini da caffè, e trasferì la manovella che triturava i chicchi come sistema per accendere il motore delle prime vetture. Così lo zero centrale nei numeri con tre cifre (la prima relativa al tipo di vettura, l’ultima relativa alla versione progressiva), era nella posizione perfetta per fare da foro alla manovella. Da allora la casa francese segue questa numerazione, con la sola variazione dei crossover, in cui lo zero è raddoppiato (2008, 3008, 4007).

Sulla scelta del nome Golf per la vettura più venduta in Europa da decenni, circolano due teorie: una sostiene che la parola sia legata alla corrente del Golfo del Messico – Golf in tedesco – perché in quel periodo le auto della Volkswagen avevano nomi riferiti a venti o correnti marine (Passat è la traduzione tedesca di aliseo; e poi Bora, Scirocco e Jetta, corrente delle zone polari). L’altra fa derivare la parola dallo sport del golf e motiva l’idea in base ad altri nomi della gamma provenienti dallo stesso campo, come Polo e Derby. La casa tedesca non ha mai dato una versione ufficiale in merito, mentre Giorgetto Giugiaro ha suggerito una terza possibile interpretazione, in realtà molto più simpatica delle altre: una delle manopole disegnate per la leva del cambio aveva in origine la forma di una pallina da golf, e questo avrebbe influenzato la scelta finale del nome. Magari avvenne il contrario, ma non si hanno certezze a riguardo.

Fantasia? Tanta, ma anche no. Vedasi chi ha scelto Giulietta per “completare” Romeo in Alfa. La versione successiva l’hanno chiamata Giulia, probabilmente solo per distinguerla dalla precedente. Restando in casa Fiat, più complessa la scelta di Panda. Su un Quattroruote del 1979, la Panda veniva presentata come “progetto 0”. In uno del 1982 invece si parla di lei come “Rustica”. Il numero del progetto, come noto, è 141, quindi si sarebbe benissimo potuta chiamare Fiat 141. Perché Panda allora? Ne “Il grande libro delle piccole Fiat”, Alessandro Sannia scrive che il nome fu scelto con iniziale disappunto del WWF che ci vedeva un’usurpazione del proprio simbolo, poi ricomposto offrendo un contributo per la buona causa della tutela dell’ambiente per ogni vettura venduta. Leggenda? Forse.

Passando dal nome dei modelli a quello dei marchi poi si apre un mondo. Tra le curiosità reperibili in rete, quindi assolutamente inaffidabili (o comunque non ufficiali) c’è anche che Audi di chiama così per merito di un prete. L’idea pare che fu del fondatore della società, August Horch. Il suo cognome in tedesco è l’imperativo del verbo ascoltare. Significa, in poche parole: “Ascolta!”. Tradotto in latino diventa “Audi”, parola che diventò il nome della società pare su suggerimento del nipote seminarista del fondatore.

E ancora, perché Toyota se il cognome del fondatore è Toyoda, con la d penultima lettera? Secondo una leggenda metropolitana la ragione è che fu scelto Toyota, con la t, perché per scrivere questo ideogramma occorrevano 8 colpi di pennello, un numero considerato fortunato in Oriente. Vero? Può darsi.

Tra i nomi delle marche automobilistiche, in gran parte riferiti ai propri fondatori (Ferrari, Lamborghini, Ford, Honda) o a sigle (ad esempio Nissan è la fusione di Nippon Sangyo, “Industria giapponese”), spiccano alcune eccezioni: Aston Martin, dalla località dove i due fondatori vinsero la loro prima gara; Hyundai, che significa “modernità”; Subaru, ovvero “Pleiadi” (il logo richiama la costellazione); Volkswagen , la “macchina del popolo”, nome scelto da Hitler. Di Jeep invece, non si conosce con certezza l’origine; l’ipotesi più accreditata (e divertente) è quella che furono i soldati americani, durante la Guerra Mondiale, a chiamare questi veicoli, capaci di arrivare ovunque, come “Eugene the Jeep”, un personaggio dei cartoni di Popeye (Braccio di Ferro).

Bello, ma nulla in confronto agli aneddoti sui nomi di alcune vetture: se in Giappone la scelta di Mazda di chiamare Laputa la propria citycar non scandalizzò nessuno, nei Paesi latini richiamò immediatamente l’associazione col mestiere più antico del mondo. Per i Paesi anglofoni, ci ha pensato Ford a ribadire il concetto, con la Escort. Un nome, a volte, vuol dire tutto. Oppure niente. E questo è il bello.

1 commento
  1. Ducacontemanu
    Ducacontemanu dice:

    Ho assistito al naming della Sedici, da stagista a Mirafiori che ero all’epoca. Il figlio di de Meo non c’entra assolutamente nulla. Brainstorming, puro e semplice. Ma è bello romanzare, fa parte della fuffa di cui il marketing ha bisogno.
    Quanto al toro Lamborghini, non è nero: è dorato su sfondo nero.
    Per il resto, articolo piacevolissimo e ricco di contenuti!
    Posto che tutti sanno della Porsche 901=>911 causa Peugeot, posso aggiungere altri 2-3 nomi infelici: Fiat Ritmo negli USA (ritmo è slang per “ciclo mestruale”…), Kia Carens (ma lo sanno il latino???), e Mitsubishi Pajero (in spagnolo vuol dire…”colui che si masturba”, quindi fu cambiato in Montero).
    C’è un mondo intero dietro…

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