Il cigno nero della mobilità sostenibile

In un precedente articolo (eccolo qui) abbiamo visto quanto è difficile fare previsioni sul futuro, soprattutto perché le congetture vengono fatte con le conoscenze e le aspettative del momento in cui si vive, ed è difficile per molti di noi pensare con un punto di vista diverso da quello abituale.

Anche perché un evento inaspettato, imprevedibile e di grande portata gioca un ruolo molto più importante della massa degli eventi ordinari: questo evento – in un secondo tempo – viene in qualche modo razionalizzato tanto da far sembrare a posteriori facilmente prevedibili i suoi effetti.

È la cosiddetta teoria del cigno nero postulata dal matematico filosofo Nassim Nicholas Taleb una ventina d’anni fa, che deve il suo nome al fatto che in Europa nel diciassettesimo secolo si credeva che i cigni fossero solo bianchi, visto che non se n’erano mai visti di altri colori. E quando ne arrivarono di neri dall’estremo Oriente… tutti a dire “ma certo, perché non avrebbero dovuto esistere?”.

Un esempio attuale è la pandemia di COVID-19 che ha cambiato il nostro modo di lavorare, rendendo lo smart working non solo possibile, ma addirittura preferibile se non imprescindibile.

Questa difficoltà a prevedere il futuro è presente in tutti gli ambiti. Per una persona di fine Ottocento era impensabile che nel giro di venti o trenta anni una nuova tecnologia avrebbe permesso di parlare da una casa all’altra senza utilizzare penna e calamaio, grazie a un centralino meccanico che inoltrava le telefonate.

A un individuo degli anni Sessanta del Novecento era difficile credere che trent’anni dopo tutti avrebbero avuto un telefono in tasca, funzionante senza fili.

A una persona di trent’anni fa era difficile credere che oggi avremmo potuto fare tutto quello che facciamo con uno smartphone e che quasi nessuno né scrive lettere né ha un telefono fisso in casa né ancora un vecchio cellulare.

Discorso che vale anche nell’ambito sociale: si fa presto a dire che l’antica Grecia è la culla della democrazia. In buona parte è vero, ma a votare per scegliere gli strateghi erano gli uomini, e tra questi solo gli aristocratici.

Votavano persone che ritenevano la pedofilia un aspetto del tutto normale della vita quotidiana, mentre le donne non erano considerate, e a raggiungere la notorietà erano ben poche, solo quelle che mettevano in mostra difetti o caratteristiche peculiari: come per esempio Santippe, la bisbetica moglie di Socrate, o la poetessa Lesbia il cui nome spiega il motivo della sua celebrità.

Tuttavia, se Pericle vivesse oggi sicuramente non trascorrerebbe le giornate di riposo trastullandosi con i ragazzini, avrebbe una considerazione ben diversa della moglie e probabilmente rispetterebbe quelle che oggi chiamiamo minoranze.

In fin dei conti tutto ciò è insito nella natura umana: i cambiamenti sono difficili da accettare ed è emblematico il fatto che i genitori da sempre sono impreparati al confronto con i figli e che quindi il conflitto generazionale – che possiamo intendere come il più logico dei cambiamenti – è sempre esistito.

Un tempo il padre arrivava a uccidere la prole nel timore di essere spodestato una volta diventato vecchio – emblematico il mito di Crono, che addirittura se li mangiava, i figli – oggi fortunatamente il confronto è quasi sempre meno cruento, ma non per questo meno divisivo.

Tutti conosciamo il più famoso dei conflitti generazionali, il famoso Sessantotto, ma ce ne sono altri altrettanto marcati senza avere la stessa fama.

In questi mesi è salito agli onori della cronaca un malessere che divide le generazioni, che colpisce chi è nato in questo millennio e che i più anziani non hanno o percepiscono molto meno: l’eco-ansia.

Chiamata anche depressione climatica, colpisce soprattutto i giovani nati dalla fine degli anni Novanta e fa star male per le sorti del pianeta. Da un rapporto dell’Unicef – redatto in collaborazione con Fridays for Future – emerge che un miliardo di bambini è direttamente minacciato (fisicamente o da un punto di vista psichico) dagli effetti del cambiamento climatico in quanto abita in uno dei 33 Paesi classificati come a “rischio estremamente elevato”.

Con il termine rischio si intendono ondate di caldo torrido seguite da piogge torrenziali, freddo intenso e incendi devastanti, trombe d’aria imprevedibili, uragani, tifoni e tornado. Tutti eventi tremendi e scioccanti che aumentano la pressione psicologica dei giovani mentre sembra che gli over 55 siano molto meno sensibili a questo problema.

È di un anno fa lo studio pubblicato dal Dipartimento di Medicina Preventiva e Sociale dell’Università di Montreal che mette in evidenza come le catastrofi climatiche siano direttamente collegate a disturbi mentali nei più giovani.

Eco-ansia è un termine che raggruppa molti altri concetti, come gli attacchi di panico, la paura del futuro e un senso costante d’apprensione per tutto. Per esempio, la paura che la pioggia del mattino si trasformi in uragano nel pomeriggio, o quella di avere figli perché li si immagina senza futuro.

Per gli esperti di Montreal questi disturbi iniziano a manifestarsi intorno ai 14 anni e possono diventare cronici verso i 18.

Abbiamo visto che non è facile fare previsioni all’interno di un contesto non conosciuto, ma in questo caso sarebbe opportuno fare uno sforzo, per prevedere come affrontare il mondo che ci aspetta, meno sostenibile da diversi punti di vista, anche quello psicologico.

Gli eco-psicologi parlano di ingiustizia climatica che diventa ingiustizia generazionale. Da sempre i giovani hanno fretta, una fretta che la generazione precedente considera eccessiva. Ma in questo caso va tenuta nella massima considerazione l’urgenza da loro posta nello scoprire, o almeno cercare, una soluzione.

I giovani stanno dicendo chiaro e forte che siamo arrivati a un livello in cui non basta più fare la raccolta differenziata o essere blandamente vegetariani: devono cambiare le priorità, il rapporto con la vita e con il pianeta.

Questo malessere deve sfruttato come una grande opportunità, per saltare velocemente nel futuro.

Tutti conosciamo gli ossimori: sono una figura retorica molto conosciuta e a volte un po’ abusata, che consiste nell’accostare due termini di senso contrario o comunque in forte antitesi tra loro (ghiaccio bollente, illustre sconosciuto, silenzio assordante…) per attirare l’attenzione dell’interlocutore e creare nuovi significati semantici o contrapposizioni di tipo paradossale.

Usando un ossimoro dello scrittore Fabio Deotto, ciò di cui abbiamo bisogno oggi sono “utopie concrete”. Cioè pensare su nuovi livelli di prospettiva, cercando tuttavia di fare atterrare in fretta i cambiamenti nella nostra vita di tutti i giorni.

Il futuro non è facilmente immaginabile o prevedibile, a maggior ragione oggi con la crisi climatica, dopo anni di pandemia e lo scoppio di una guerra che potrebbe avere effetti catastrofici.

Solo a posteriori potremo dire che tutto era prevedibile… ricordate il cigno nero?

Quello che però riusciamo a immaginare chiaramente oggi è che in questi nostri tempi difficili il futuro si avvicina a una velocità ben diversa rispetto al passato. Non stiamo più affrontando una facile salita, ma una parete verticale! E dobbiamo comunque affrontarla se vogliamo sopravvivere.

Come afferma il già citato Fabio Deotto nel suo libro “L’altro mondo. La vita in un pianeta che cambia”, il cambiamento sarà obbligatorio e la transizione non potrà essere solamente energetica.

Per Deotto dobbiamo smettere di vedere la transizione ecologica come una serie di potenziali privazioni o impedimenti. Nell’ambito della mobilità sostenibile, dobbiamo smettere di pensare “quanto tempo mi dovrò fermare per caricare l’auto elettrica nel viaggio da Milano a Roma?”. O “quanto sarà difficile trovare una colonnina libera quando tutti avranno l’auto elettrica?”. O ancora, “certo non avremo fonti energetiche a sufficienza quando milioni di vetture elettriche richiederanno potenza tutte insieme”.

Secondo Deotto dobbiamo sforzarci di immaginare un cambiamento futuro in positivo e viaggiare in quella direzione.

Parlando di energia, sarebbe opportuno cercando di trattare i cambiamenti che la riguardano come se fossero un… cigno nero, e scoprire così nuove soluzioni.

Impossibile? No, si tratta semplicemente di ragionare per utopie concrete.

Ovviamente l’energia è un fattore strategico, ancor più in questa fase storica in cui costa molto e corriamo il rischio di razionarla. Quando costava meno e l’approvvigionamento non era difficile, a nessuno sembrava un problema: ma oggi lo è diventato e incide in modo significativo sulla nostra vita.

Oggi non possiamo continuare a utilizzare il petrolio. È ormai chiaro a tutti che l’emergenza climatica ci impone di abbandonare rapidamente le fonti fossili come carbone, petrolio e gas. E quindi quanto mai in fretta dobbiamo dare vita a una società in cui l’energia è prodotta solo da fonti rinnovabili.

Ragionando per utopie concrete, dobbiamo per forza aumentare la quota di energia prodotta da fonti rinnovabili: qualcuno lo sta già facendo, come per esempio Portogallo e Germania che si sono poste l’obiettivo in tempi brevi di raggiungere il 100 per cento.

Per questa che oggi sembra quasi una rivoluzione epocale (ma che per la teoria del cigno nero in un futuro prossimo probabilmente ci sembrerà un passaggio facile e scontato) non saranno obbligatoriamente necessari investimenti pubblici o privati esorbitanti, o di aumento del debito pubblico.

A volte è sufficiente eliminare i vincoli che bloccano la crescita delle rinnovabili.

Secondo Terna ci sarebbero 280 gigawatt di progetti depositati in attesa di autorizzazione. Pensate, questo valore sembra sia 4 volte superiore agli obiettivi di decarbonizzazione fissati per il 2030.

Bisogna essere convinti che la transizione energetica verso fonti sostenibili sia fondamentale e che sia altrettanto importante strutturarla in modo da ovviare ai suoi più evidenti punti deboli, cioè l’uniformità di produzione nel tempo e il suo stoccaggio.

Un esempio? Partirà tra qualche settimana – dopo un paio d’anni di sperimentazione con un pilota – l’impianto Vehicle-to-Grid (V2G) di Free2move eSolutions, installato nel parcheggio logistico del Drosso all’interno dello stabilimento Stellantis di Mirafiori a Torino.

La tecnologia V2G è conosciuta: si tratta di una tecnologia bidirezionale che consente sia di caricare la vettura sia di restituire potenza alla rete, e rappresenta quindi un’importante opportunità di sviluppo e di supporto alla richiesta di energia.

Quindi, il V2G contribuisce alla realizzazione di un sistema più sostenibile e rappresenta un’opportunità per ottimizzare i costi di esercizio delle vetture a vantaggio degli automobilisti, nonché una concreta possibilità per contribuire a un sistema elettrico più sostenibile.

L’impianto del Drosso di Free2move eSolutions è il più grande al mondo con 280 sistemi di ricarica veloce che connettono 560 vetture elettriche. Si tratta di circa 25 megaWatt di stoccaggio immediatamente disponibile, in grado di fornire servizi di rete e di energia pari al consumo giornaliero di 5 mila famiglie. Stiamo parlando di quasi 64 mila tonnellate di CO2 non immesse in atmosfera nei prossimi dieci anni.

Numeri importanti ai quali si aggiungono i valori del sistema di stoccaggio e i pannelli solari (che coprono l’intero impianto) e che permettono di confutare le affermazioni delle varie Cassandra che sanno tutto delle fonti rinnovabili e che spiegano come la cosiddetta intermittenza sia un fattore invalidate della loro diffusione.

La tecnologia esiste, i primi impianti come quello di Free2move eSolutions a Mirafiori – che tra l’altro usufruisce dell’innovation Fund della Comunità Europea – iniziano a essere operativi… Quindi che cosa manca ancora?

C’è bisogno che il governo appena nato promulghi decreti attuativi sulle comunità energetiche e dia vita a un piano per il fotovoltaico e (perché no?) anche a diffondere in modo capillare il V2G e le sue varianti, come il Vehicle-to-Home (V2H) che permette una riduzione dei costi per l’energia a carico del singolo cittadino.

Si tratta di interventi che avranno un riscontro positivo sia per i privati, sia per il pubblico: l’occasione più ghiotta per intraprendere sul serio la strada della decarbonizzazione, con i fatti non soltanto con le parole.

Ovviamente il singolo individuo nelle sue attività di tutti i giorni è fondamentale nel contribuire alla salvaguardia del nostro pianeta. Attenzione però a non finire nella trappola di assolverci in quanto noi “la nostra parte” la facciamo!

L’impegno dei singoli cittadini deve essere supportato da politiche istituzionali che oltre a rendere strutturali le attività virtuose, educhino e sensibilizzino cittadini e aziende.

In fin dei conti, è più facile cambiare le nostre abitudini tutti insieme piuttosto che ognuno per sé con modalità e temi diversi.

Tra questi interventi quello che forse è più facile gestire in gruppo è proprio il cambiare il modo di spostarci in città e di viaggiare: in due parole, la smart mobility.

Ma che cos’è questa benedetta smart mobility che tutti osannano e considerano imprescindibile?

Beh, si tratta di fornire un servizio, magari on demand, che consenta a tutti di utilizzare un sistema di trasporti puliti, ecologici, efficienti e flessibili adatti a ogni necessità.

Complessivamente il settore dei trasporti è responsabile del 24 per cento delle emissioni mondiali di anidride carbonica. E quasi la metà viene rilasciata da auto, moto, autobus e taxi.

Guarda caso i mezzi coinvolti dalla smart mobility. Quindi, che fare?

Da un lato è necessario proseguire rapidamente nell’elettrificazione del parco circolante, che ovviamente contribuisce fattivamente alla riduzione delle emissioni da parte del trasporto. Dall’altro lato è fondamentale dare la caccia al cigno nero, cercando nuove forme di mobilità, come fa per esempio la MaaS (Mobility as a Service) un nuovo concetto di mobilità che dovrà permettere ai cittadini di usufruire diversi mezzi di trasporto pubblici e privati, gestiti tutti insieme per viaggiare in maniera più sostenibile. Si tratta di bus, metro, treni, car sharing, scooter, bici, monopattini…

La MaaS spinge a cambiare l’attuale modello inquinante e dai molti attori a uno coordinato e magari gestito digitalmente, in grado di impattare meno negativamente sull’ambiente.

Il Future Mobility Finland (un sito veramente interessante) afferma che il MaaS è la soluzione ideale in quanto consente di combinare le opzioni di trasporto gestendo tutto, dalla pianificazione del viaggio ai pagamenti.

Non esiste un’unica forma di MaaS, l’importante è che il trasporto pubblico rappresenti sempre la spina dorsale del sistema, per ridurre al minimo gli sprechi e le emissioni di CO2.

Si tratta di novità tecnologiche e infrastrutturali, ma anche e soprattutto sociali, passando senza più freni inibitori dalla cultura del possesso a quella dell’uso.

Il MaaS funzionerà solo se a comprenderlo e farlo proprio saranno sia gli utenti sia chi fornisce i servizi: aziende private locali, Comuni, multinazionali di sharing, singoli cittadini… Solo un elevato grado di integrazione e collaborazione all’interno del sistema mobilità urbana porterà al successo del progetto.

Ma c’è un tallone d’Achille in questo sistema: il rispetto della giustizia sociale.

È importante che nella transizione non venga escluso nessuno, soprattutto quei cittadini che potrebbero fare più fatica a essere integrati.

Anziani, disagiati, abitanti delle periferie poco collegate, persone con basso livello di alfabetizzazione digitale o senza connessione internet a elevata velocità… La smart mobility deve essere uno strumento democratico, deve ridurre le disuguaglianze, non aumentarle!

L’unione Europea sta già procedendo in questa direzione. Infatti, ha destinato buona parte delle risorse del piano Next Generation EU a progetti per favorire la transizione energetica e digitale.

Obiettivo? Secondo quanto dichiarato nell’European Green Deal e nel “Sustainable and Smart Mobility Strategy”, la UE punta a ridurre del 90 per cento le emissioni di anidride carbonica entro il 2050.

Tra le misure proposte c’è il supporto al progetto MaaS 4 EU che vuole facilitare la realizzazione del MaaS nelle città europee, permettendo per esempio l’acquisto di biglietti per viaggi su più mezzi di trasporto o il passaggio delle merci da una modalità di trasporto a un’altra senza soluzione di continuità.

In Italia sono Milano, Torino Bologna e Firenze a muoversi più rapidamente in questa direzione, con numeri importanti di vehicle sharing e micromobilità.

Secondo l’Osservatorio Smart City del Politecnico di Milano, quasi il 30 per cento dei Comuni italiani ha avviato nell’ultimo anno un progetto per diventare smart city. Quasi il 50 per cento di queste città hanno più di 150 mila abitanti, siti dove ovviamente il problema è più sentito.

La transizione verso i propulsori elettrici consentirà di ridurre le emissioni e la dipendenza dal petrolio e gas naturale, raramente importante e suscettibile di fluttuazioni di prezzo come in questo momento, per effetto delle complesse condizioni geopolitiche nei Paesi produttori.

Lo scenario può essere completato da opportunità più avveniristiche, come i veicoli a guida autonoma, i droni per il trasporto merci, la connessione tra semafori e app sulle auto…

Senza dimenticare quelle tradizionali ma sempre valide, come incentivi all’acquisto, rimborso delle spese e detrazioni per realizzare infrastrutture di ricarica, permesso di accedere alle aree a traffico limitato e così via.

Siccome sembra che in Italia l’87 per cento dei lavoratori usi un mezzo di trasporto (nel 75 per cento dei casi quel mezzo è l’auto) una mobilità coordinata tra i vari mezzi permetterebbe di farci respirare aria più pulita e di divertirci a bordo di un monopattino noleggiato dopo aver utilizzato la metropolitana fino in centro dal parcheggio di interscambio dove avevamo lasciato la nostra auto.

Tutto bello ma… a una condizione: di pari passo alla tecnologia e al coinvolgimento di tutti gli attori, deve crescere l’educazione stradale adatta ai nuovi mezzi della micromobilità, monopattini prima di tutto. Va assolutamente fatto, per garantire la sicurezza di tutti ed evitare che le nostre città siano sì completamente verdi ma trasformate nel palcoscenico di duelli rusticani all’ultimo sangue tra gli utilizzatori dei diversi mezzi che si accoltellano, o peggio, per una precedenza non data.

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