Addio Signorina F1

Addio a Maria Teresa de Filippis, la prima donna della Formula 1. Se ne va a 89 anni una protagonista dello sport e del costume del Novecento, ultima erede di una generazione di piloti eroi, temerari che all’inizio del secolo scorso gareggiavano con occhialoni da aviatori e un caschetto di pelle a fasciare la testa. Nuvolari l’icona di riferimento, poi un rosario di pionieri del volante entrati a tutto gas nella leggenda e nel progresso: Nazzaro, Campari, Biondetti, Varzi, Bonetto, Farina, Taruffi, Fangio, Ascari, Musso, Castellotti…
Era nata a Napoli il 6 novembre (per l’anagrafe l’11) del 1926. E’ spirata a Bergamo, dove viveva, assistita dalla figlia Carola e dal marito Theo Hushek, austriaco, inseparabile compagno di una vita, un passato da pallanuotista e un lavoro all’Alfasud di Pomigliano. Insieme vivevano da molti anni in una bella casa con vista sulla Valseriana, in passato avevano abitato per un anno a Capri. Era malata da tempo, la de Filippis. Aveva perso la memoria, non riconosceva quasi nessuno, sommerse in un pozzo nero le fantastiche storie delle sue avventure in pista e su strada. Monza, Monaco, Spa, la Mille Miglia, la Targa Florio, l’amatissimo circuito di Posillipo…
Da sabato 19 dicembre la situazione s’era fatta critica. Emorragia cerebrale con complicazioni. I medici hanno parlato subito di “situazione seria e pericolo di vita consistente”. In un messaggio agli amici più cari, il marito Theo confidava tutta la sua angoscia: “Credo che non ci sia più niente da fare. Sono distrutto”. Dopo che Maria Teresa aveva chiuso con le corse, insieme avevano curato per anni la gestione del Club International Des Anciens Pilotes de Grand Prix di F.1, di cui la de Filippis è stata per molti anni vice presidente e il marito segretario generale. Inseparabili, fino a qualche tempo fa non era raro incontrarli in giro per il mondo, tra le quinte dei gran premi, assieme a grandi campioni del passato.
Non amava la Formula 1 moderna. “Troppo facile, tutto calcolato, non c’è più estro, improvvisazione, il talento è soffocato dagli ordini dei box e dall’elettronica, che senso ha?” Non le garbava neanche l’assenza di donne. “Non mi spiego come sia possibile”, brontolava, commentando il monopolio dei maschi in Formula 1 e rammaricandosi del fatto che soltanto una delle sue eredi, Lella Lombardi, fosse riuscita a conquistare un mezzo punto nella classifica del Mondiale (1975), mentre sono rimaste confinate nel ruolo di comparse Giovanna Amati, Divina Galica, Desiré Wilson, Maria de Villota, Susie Wolff (le ultime due fermatesi al compito di collaudatrici).
“Anche se ero l’unica donna – amava raccontare – mi sentivo comunque parte di un gruppo di amici affiatati e solidali. Ci sfidavamo in pista, ma si viaggiava sempre insieme e dopo le corse si andava a cena e a fare baldoria in compagnia. Oggi è tutto diverso, tutto è controllato dagli sponsor, dal marketing e dagli addetti alle pubbliche relazioni. L’unico che un po’ mi ricorda i piloti della mia epoca è Fernando Alonso, il migliore di tutti. In passato ho ammirato anche Gilles Villeneuve e Ayrton Senna, del brasiliano però mi inquietavano i suoi occhi tristi”.
Se le chiedevi ricostruzioni dettagliate della sua carriera diventava insofferente. “Rivolgetevi a Theo, lui è il depositario di tutto”. Accettò senza entusiasmo che due grandi firme dell’automobilismo come Cesare De Agostini e Gianni Cancellieri le dedicassero, nel 2005, una biografia intitolata “La signorina F.1”. Di frequente accerchiata da giornalisti e ammiratori affascinati dalla sua figura, concedeva comunque interviste sempre ricche di curiosità. “A volte – raccontava – giravo nei box con un cane lupo, per tenere a distanza gli scocciatori… la mia cura di bellezza? La faccia nera per lo sporco di olio e polvere… Non mi spiegavo come facesse Musso a non frenare mai, poi capii che le monoposto di Formula 1 non avevano gli stop…”
Figlia del conte di Serino Franz de Filippis, ricco industriale nel settore energia (ingegnere e cavaliere del lavoro, elettrificò il sistema d’irrigazione della Campania), e di una nobildonna spagnola, Narcisa Anselmi Balaguer Roca de Togores y Ruco y Perpignan, Maria Teresa era l’ultimogenita di cinque figli, tre maschi e due femmine. Appassionata di equitazione, cominciò a gareggiare in auto per una scommessa con i fratelli Antonio e Giuseppe (il primo fu nel dopoguerra uno tra i più attivi piloti amatori). Il 30 giugno del 1948 si presentò con una piccola Topolino al via della Salerno-Cava de’ Tirreni e ottenne un sorprendente primo posto di classe. Fu quello l’inizio d’una carriera vissuta tutta controcorrente, all’alba della motorizzazione di massa. Un’epoca in cui poche donne avevano la patente, e lei, invece, correndo contro plotoni di maschi agguerriti fu vice campione d’Italia nel 1954 e si spinse poi fino alla Formula 1, con la Maserati 250F, la stessa auto con cui Manuel Fangio si aggiudicò il suo quinto titolo mondiale di Formula 1, nel 1957.
Nel ‘58 si iscrisse a quattro gran premi validi per il Mondiale: Monaco, Belgio, Portogallo, Italia. La sua auto non era aggiornatissima e per Maria Teresa il compito era improbo. “Dovevo misurarmi con gli uomini e con una oggettiva mancanza di cavalli”, raccontava quando aveva voglia di riaprire lo scrigno dei ricordi. Suo miglior risultato fu il decimo posto nel GP del Belgio, a due giri dal vincitore Tony Brooks su Vanwall. “Seguii i consigli di Manuel Fangio, mio grande amico. Punta ad arrivare in fondo, non correre rischi inutili, mi disse. E così feci”. A Monza, invece, fu costretta al ritiro per avaria meccanica mentre era ottava. Al GP di Francia, a Reims, il direttore di corsa respinse l’iscrizione con una motivazione che ancora oggi fa scandalo: “L’unico casco che può indossare una donna è quello del parrucchiere”. Nel 1959, a Monaco, si qualificò all’ultimo giro in prova, con la Porsche-Behra, ma venne esclusa con una scusa per fare posto a Cliff Allison, pilota ufficiale Ferrari. Sul circuito di Siracusa, dove si disputava un gran premio non valido per il Mondiale, ottenne un onorevole quinto posto, il suo risultato migliore nella massima categoria dell’automobilismo. Era il 13 aprile del 1958.
Fisico minuto, un metro e sessanta per cinquanta chili, la soprannominarono pilotino. Aveva forza nelle braccia e sapeva farsi valere, soprattutto con le auto della categoria Sport. Ma era anche ricca di charme. Tra i suoi tanti ammiratori, ci fu anche un giovane studente friulano finito in galera: le scrisse una lettera dal carcere di Poggioreale chiedendole di sposarla. Sempre abbronzata, sprizzava una vitalità contagiosa. Non mancarono flirt e storie d’amore nell’ambiente delle corse, la più importante con Luigi Musso, pilota romano in forza alla Ferrari. “Un amore folle” raccontò in un raro momento di confidenza, lei sempre riservata quando si parlava della vita privata.
Abbandonò le corse quando venne a sapere della morte, sul circuito tedesco dell’Avus, di Jean Behra, suo grande amico: in quella gara il pilota francese l’aveva sostituita all’ultimo momento, utilizzando la vettura, una Behra-Porsche, con la quale avrebbe dovuto correre lei. “Capii che l’automobilismo era diventato troppo pericoloso. Fino ad allora ero stata fortunata, avevo subito incidenti anche gravi e me l’ero sempre cavata, salvo perdere l’udito da un orecchio, per le conseguenze di un’uscita di strada in Sardegna. Una volta, al Mugello, volai fuori dall’auto e precipitai in un burrone, mi salvai rimanendo aggrappata a un albero. Era fortissimo il rischio di perdere la vita, perciò decisi di dire basta”. Le confidenze a Napoli, nell’ormai lontano 1983, quando Maria Tersa tornò nella città natale per la rievocazione storica del Gran Premio di Posillipo, che si era svolto dal 1934 al 1962, ad eccezione del periodo bellico.
In quei giorni dominati dalla nostalgia l’ormai ex pilota ed alcuni suoi colleghi (Manuel Fangio, Gigi Villoresi, Franco Cortese, Sergio Mantovani, Manuel De Graffenrield) riannodarono i fili della memoria per raccontare quanto bello fosse stato il circuito napoletano, poco più di quattro chilometri tra viali alberati, curve e saliscendi mozzafiato, al culmine della collina dominata dal rettilineo del Virgiliano, lì dove venivano allestiti griglia di partenza, box e tribune.
“Era un circuito spettacolare, che non aveva nulla da invidiare a Montecarlo” disse la de Filippis, impersonando il ruolo d’impareggiabile padrona di casa. “Dalle nostre parti – raccontò – si disputavano molte corse, la Targa Vesuvio, la Agnano-Cappella de’ Cangiani, la Sorrento-Sant’Agata, il circuito di Caserta, quello di Avellino, la Salerno-Cava… persino una cronoscalata a Capri (convinta da Pupetto di Sirignano, principe della dolce vita caprese, la de Filippis vi partecipò, nel 1953, al volante di una Fiat 1400 Cabriolet abitualmente adibita al servizio taxi, e si classificò quinta, ndr), ma il massimo era il Gran Premio di Napoli. A Posillipo – raccontò – andavo sin da bambina, prima ancora di diventare pilota, ero una inguaribile appassionata e seguivo le corse dalle tribune, se possibile dai box. Appena presi patente e licenza cominciai a partecipare alle gare”. Scoprì la categoria Sport nel ’49, con una Camen-Fiat costruita proprio a Napoli; poi passò all’amatissima Giaur (Giannini-Urania) motorizzata con un bicilindrico BMW 750; successivamente guidò la Osca 1100, infine la Maserati, grande amore, prima l’A6GCS, poi la monoposto 250F, un mostro da 280 chilometri l’ora. Enzo Ferrari ne seguì le imprese con rispetto, senza sbilanciarsi. La definì “una rarità”.
A Posillipo finì tre volte sul podio. Seconda. Memorabile la corsa del 1956, con una Maserati 200S della categoria Sport, gara di contorno al Gran Premio vinto dal francese Robert Manzon. Arrivata in ritardo, non riesce a partecipare alle prove. Ammessa ugualmente al via, viene però costretta a partire dall’ultima fila. Dopo trenta giri all’arrembaggio, è seconda, alle spalle della Maserati di Lugi Bellucci, amico e concittadino con il quale ha condiviso due partecipazioni alla Targa Florio (‘54 e ‘55, un 4° e un 9° posto). Palpitanti gli ultimi metri: Bellucci è rimasto senza benzina e taglia il traguardo a motore spento, con il cambio in folle, mentre minacciosa si profila alle spalle la sagoma della Maserati guidata dall’agguerritissima rivale. Ma lo svantaggio è troppo: 18 secondi. Bellucci primo, de Filippis seconda.
“Venire a Napoli è per me sempre un’emozione” confidò in quei giorni di struggenti nostalgie. “Appena possibile torno giù, anche se ormai non ho più parenti, né la casa in via Chiatamone né quella di palazzo Morisani, a Trinità Maggiore”. Sarebbe tornata ancora in un paio d’occasioni: per un evento Maserati e, l’ultima volta, nel dicembre del 2010, per la presentazione di un libro in cui si narravano anche le sue imprese al volante.
In quell’occasione volle tornare a Marigliano, dove aveva trascorso, da ragazzina, indimenticabili vacanze estive in quella che lei ricordava con nostalgia come “la casa bianca”, un palazzotto di campagna di proprietà del padre. L’urbanizzazione del territorio, le nuove costruzioni, il cambio dei colori… fu penoso aggirarsi tra strade e fabbricati irriconoscibili, dopo tanti anni… Maria Teresa si lasciò andare ad un pianto sommesso. Fu invece bello rivedere la Giaur 750 degli anni ruggenti, l’auto degli esordi, una piccola Sport ricavata dalla fusione dei marchi Giannini e Urania, ancora oggi amorevolmente custodita a Casoria dalla famiglia Veneruso, collezionisti appassionati e devoti. “Conservatela con cura, è stata una parte importante della mia vita” si raccomandò l’anziana signora delle corse, accarezzando l’auto come fosse un essere umano. “Io, con le mie macchine, ci parlavo…”.

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