Il mal d’Africa in auto
L’Ospite di Autologia: Kiko Casalegno
Era la primavera del 1998. L’amico Vincenzo Lancia, allora organizzatore del Rally d’Egitto insieme a Daniele Cotto e Jacky Ickx, mi chiese se mi sarebbe piaciuto occuparmi del coordinamento del Servizio Sanitario della gara, che si svolgeva nel deserto egiziano alla fine del mese di settembre: accettai subito, spinto dalla mia innata curiosità.
In realtà poco o nulla sapevo del deserto, giusto quello che si può apprendere vedendo documentari in tv: io, perfetto cittadino, mai dormito una notte in una tenda, mai rinunciato alle comodità del vivere civile, mi trovai catapultato in un mondo tremendamente diverso, cui non ero assolutamente preparato, che all’inizio mi spaventò non poco.
Essere responsabile della salute di una carovana di 600-700 persone che si spostava per una settimana nel deserto, per di più a seguito di un gruppo di uomini speciali, letteralmente assatanati, che si sfidavano ad alta velocità fra dune, pietraie, dirupi, sfrecciando in sella a potenti motociclette o racchiusi nell’abitacolo di mostri a quattro ruote , non era semplice, ma la mia non era solo una preoccupazione prettamente…professionale!
Infatti a questa situazione lavorativa non facile da gestire si aggiungevano tanti fattori che ingenuamente non avevo considerato con attenzione: gli aspetti climatici, ambientali, alimentari, igienici, rendevano questa esperienza estrema al di fuori dal concetto che fino ad allora avevo dell’avventura. Fu così che mi ritrovai, una notte di tempesta di sabbia, a dormire dentro un Land Rover sdraiato su una distesa di casse di acqua minerale, o a non dormire addirittura per giorni e giorni ( di giorno il lavoro, di notte i trasferimenti per essere pronti all’alba all’arrivo della tappa successiva a dare assistenza), a lavarmi, o meglio, a non lavarmi per scrollarmi di dosso la sabbia che entrava ovunque, a mangiare alle ore più strani, insomma costretto a rinnegare tutti i canoni che avevano scandito la mia comoda vita “civile” fino ad allora, roba da non vedere l’ora di tornare a Torino, ma mi sbagliavo.
Non avevo considerato il “mal d’Africa”, il silenzio di quella emozionante distesa di sabbia che mi chiamava costantemente e mi chiedeva di tornare. Ci tornai l’anno dopo, e l’anno dopo ancora, ogni volta con un entusiasmo crescente e con una voglia sempre crescente di provare ancora quelle sensazioni che all’inizio mi erano sembrate una follia sgradevole.
Così le dune cattedrale intorno a Siwa, le dolci distese sabbiose di Baharya, il deserto di pietre e canyon verso Hurgada, il deserto bianco candido come neve verso Farafra cominciarono ad essere parte di me, dei mei sogni, dei miei progetti.
Fu allora che acquistai il mio primo 4×4, un Toyoya 4 Runner, con il quale tentai la prima avventura nel deserto tunisino. Ogni duna passata era una conquista, pochi cavalli e zero esperienza. Passai poi con grande emozione a quella specie di aeroplano che era il “MIO” Toyota HDJ80, auto assolutamente fantastica, che perdonava i miei errori e mi portava ovunque senza tradirmi mai.
In seguito, grazie all’amicizia pluriennale con Giampi Quaglino, motociclista con numerose esperienze di raid africani, diventato poi sapiente tour operator di questa tipologia di viaggi (www.tenereviaggi.com), cominciai a girare praticamente tutti i deserti del nordafrica. In Libia, Il Murzuq con le sue dune alte centinaia di metri ed i suoi gassis -ciò che rimane di laghi asciutti da migliaia di anni, l’Awbari, con i suoi cordoni di dune sinuosi che si ripetono e si perdono all’infinito, l’Akakus, paesaggio marziano di sabbia e roccia, distese sabbiose e canyon profondi di incredibile bellezza, il gran mare di sabbia verso l’Erg di Rebiana. E ancora, in Tunisia con un deserto di dune piccole e…cattive, piene di insidie che rendevano ardua la guida verso El Borma, o i paesaggi mutevoli verso le pozze di Ain Ouadette e Ksar Ghilane.
Non ci sono né parole, né foto, né filmati che possano rendere conto a chi non c’è stato, della bellezza assoluta di quei posti. Il deserto è l’immensità di un granello di sabbia, è il vento che ti turbina nelle orecchie e alza un velo traslucido di sabbia dalla sommità di una duna, è il silenzio assordante che pervade tutto attorno a te la sera, quando si spegne anche l’ultimo motore ed i passi, le voci, il tintinnio di un martello che pianta a terra i picchetti di una tenda sembrano venire da lontano, è la potenza della natura che si scatena quando la tempesta di sabbia non ti fa respirare, vedere, mangiare, bere, dormire, è un paesaggio mai uguale due volte, è un panorama mozzafiato all’alba, quando tutto ricomincia, è un cielo stellato di una purezza unica, che non ti stuferesti mai di guardare la sera, se non fosse che bisogna andare a dormire presto, perché la sveglia è sempre prima di scorgere il sole che sorge. E meno male che c’è sempre qualche compagno di viaggio che ti precede ed allora ti arriva come per incanto il profumo di un buon caffè.
Il deserto è anche stare insieme in gruppo, aiutarsi a vicenda nei momenti più difficili per poi prendersi amabilmente in giro per le disavventure andate a buon fine, è un bicchiere alzato prima di cena per brindare alla giornata appena trascorsa, è mangiare mettendo insieme ciò che ciascuno ha portato… è, insomma, provare a sé stessi che qualcosa di diverso c’è.
Cittadino? Ma dove? Ma quando? Senza retorica, nel mezzo di quel nulla assoluto io ritrovavo me stesso, o meglio quella parte di me annullata dalla cosiddetta civiltà, con le sue abitudini, le sue certezze, i suoi agi, le sue storture.
E poi che dire dell’ auto, della preparazione alla quale ti devi dedicare con cura pressochè maniacale prima del viaggio? Una messa a punto perfetta eseguita dalla mano sapiente del mio buon amico Attilio “Attila”, meccanico fantastico tutto genio e sregolatezza, ma assolutamente affidabile, e poi serate e tempo libero passate studiando e ristudiando il posizionamento dei bagagli nei gavoni: il cibo, il vestiario, l’acqua da bere, (e, perché no? anche il serbatoio di quella, disinfettata dall’Amuchina, da conservare per una doccetta –alimentata dalla batteria – rinfrescante la sera), il serbatoio supplementare per il gasolio, gli utensili ed i ricambi, i pneumatici di scorta, la tenda (benedetto l’air camping sul tetto!!!) , sacchi a pelo, coperte, farmaci e presidi medici di primo soccorso…tutto perfettamente alloggiato ed assicurato con le cinghie a cricchetto, perché nel deserto…si balla, eccome! E se tutte le cose all’interno del 4×4 non sono ben disposte e fermate dopo qualche ora di dune c’è il rischio di trovarsi come all’interno di un gigantesco frullatore…e comunque c’è sempre qualcosa che dimentichi e a cui rimedi all’ultimo secondo.
E ci metti anima e cuore, e tratti e coccoli la tua auto con rispetto perché quella che prepari non è solo il tuo automezzo, ma laggiù, nel mezzo de nulla, sarà la tua casa, il tuo armadio, la tua cambusa, la tua camera da letto, il tuo rifugio, la tua scialuppa, la tua officina, da curare come se fosse una persona di cui non puoi fare a meno, e per i servizi…le dune non mancano…chi avrebbe mai detto che avrei amato tutto questo?
E così, viaggio dopo viaggio, è cresciuta l’esperienza ed insieme il rispetto per il deserto, a cui è pericoloso dare del “tu”, perché, così come in mare o in alta montagna, l’insidia è sempre dietro l’angolo e non puoi permetterti disattenzioni o, peggio, superficialità nell’affrontare con troppa sicurezza le situazioni che si susseguono nel viaggio.
Gentile Casalegno, non era assolutamente mia intenzione essere irrispettoso nei confronti di tutti coloro che ci cimentano, peraltro con grande coraggio e spesso a costo della vita, in impegnative competizioni su piste desertiche. Sono invece d’accordo con l’ultima parte della sua precisazione (alla quale mi riferivo anch’io) e leggerò con grande interesse il suo prossimo articolo preannunciato sul tema.
Mi sento in dovere di rispondere a “mister x” che ha commentato il mio articolo sul mal d’africa in auto, perchè, senza alcuna polemica, non ho capito lo spirito con il quale è stato scritto. Se si riferisce ai piloti di rally africani, essi sono assimilabili a quelli di formula 1 o di motogp, professionisti e dilettanti seri che, al massimo, tornati in patria, si possono trovare ad allenarsi duramente sui campi di cross e mai sulle nostre strade; se si riferisce a noi, turisti “non tanto” per caso nel deserto, ribadisco che per le ragioni di sicurezza che ho espresso nell’articolo, sulle dune non si possono fare scorribande se non a caro prezzo, e questo modo di guidare ci accompagna sulle strade di casa nostra; inoltre, abbastanza inspiegabilmente, i frequentatori delle distese del sahara sono per lo più uomini – e donne – non giovanissimi, nei quali da un pezzo si è spento l’ardore della guida da brivido. Se invece si riferisce ai tanti, troppi delinquenti che imperversano sulle strade italiane, sono perfettamente d’accordo e li manderei tutti, con solo biglietto di andata, a sfasciarsi sulle dune dove non ruberebbero vite innocenti. Ma questo è il contenuto di un articolo che, spero, invierò e sarà pubblicato a breve. un saluto a tutti i lettori di questo bellissimo sito. p.a.casalegno
E’ un vero peccato che non si possano più fare scorribande nei deserti africani, così gli intrepidi corridori ce li teniamo sulle nostre strade di tutti i giorni…