“Ho sempre desiderato di realizzare qualcosa di impossibile”
«Le ho disegnate entrambe. Ma ho imparato che è molto più difficile progettare una Panda piuttosto che una Maserati: quando hai mezzi, misure e limiti di economicità da rispettare, ottenere un grande risultato non è facile…». Pragmatismo e capacità visionarie, estro e realtà industriale, scuola, mercati e futuro: Giorgetto Giugiaro ha ancora tanto da insegnare. Dopo aver ceduto sette mesi fa l’ultimo 10% che deteneva di Italdesign al Gruppo Volkswagen, uno dei più grandi designer di automobili (e non solo) della storia ora sale in cattedra. A 77 anni sarà Presidente e Maestro del dipartimento di Transportation Design allo IAAD (l’Istituto torinese di Arte Applicata e Design diretto da Laura Milani).
«Si tratta – spiega Giugiaro – di una grande novità: ho sempre ragionato nell’ottica di creare qualcosa con l’obiettivo di vederla realizzata. All’Università ora insegnerò invece pura teoria. E farlo senza dover rispondere a esigenze industriali sarà certamente insolito per me. Ai ragazzi comunque spiegherò che un disegno è bello se tiene conto della realtà: un progetto che non è fattibile, è inutile».
Creatività, gusto, idee: il design italiano, non solo nell’auto, ha fatto scuola nel mondo. Ma cos’è il talento?
«È un mistero, un dono che ti capita e che serve saper gestire, come la bellezza. Ma aver talento significa saper affrontare gli argomenti, risolvere i problemi, capire la vita. Nell’ideare un’automobile ad esempio ha talento chi comprende che prima di tutto si tratta di un progetto ingegneristico: l’aspetto estetico è importantissimo, ma viene dopo. L’auto oggi, ancora più di ieri, deve affrontare problemi economici e di sostenibilità, l’aspetto edonistico è solo una parte del tutto».
Emozione, visione, utopia. Sono concetti che contano ancora nel progettare oggetti come le auto?
«Coraggio e fantasia vanno bene, ma pesano meno rispetto al passato. Occorrono altre doti per emergere. Un esempio? Peter Schreyer. Ha iniziato con la matita in mano e oggi è diventato un manager importante nel Gruppo Hyundai-Kia».
Dunque anche nel design vince chi sa rispondere alle leggi del mercato?
«È così, ed è fatale che lo sia. L’automobile oggi è il prodotto più difficile in assoluto da creare, perché va inserita in un contesto sociale molto complesso, condizionato com’è da traffico, inquinamento, norme da rispettare. Ma finchè non verrà inventato il teletrasporto, resterà un mezzo indispensabile per muoversi. Dunque occorre adeguarsi, aggiornarsi, accettare la realtà».
E magari incoraggiare comunque i giovani talenti del design automobilistico…
«Certo. Al contrario di quanto stanno facendo oggi i grandi brand che puntano sempre più sui Centri Stile interni all’azienda e non investono fuori, sullo scambio delle idee. Perdendo grandi opportunità».
Cosa pensa del “dieselgate”?
«Sono deluso da Volkswagen. La correttezza fino in fondo non è un optional. Producevano, e producono ancora, le migliori auto del mondo. Ma non si può pensare di imbrogliare e farla franca. Sono deluso perché un grande gruppo non può comportarsi in questo modo. È una questione morale prima di tutto. La colpa però è anche dei governi, è stato un errore non imporre da tempo anche i test su strada»
Elettrica, ibrida, a guida autonoma. La scelta dell’alimentazione inciderà probabilmente sempre più anche nel design. Ma che forme avrà l’auto del futuro?
«Spero non quella della Google-car che si è vista sinora nelle prime foto: un ovetto che sembra disegnato da un bambino. Brutta? Diciamo che non è bella. A Silicon Valley hanno la presunzione di inventare un nuovo mondo: hanno risorse economiche straordinarie, ma la sfida che affrontano sarà difficile anche per loro».
Nel senso che quella di Google è una visione azzardata?
«Dico solo che ci sono regole da rispettare. E che anche con motori sempre più piccoli, sistemi di trazione innovativi e ingombri interni diversi, la fisicità di chi occupa l’automobile dovrà comunque sempre essere rispettata. Come l’estetica e la forma. L’altro punto fermo è la sicurezza attiva e passiva dei veicoli, alla quale le forme dovranno adeguarsi sempre di più».
A questo proposito, molto è già stato fatto: le auto oggi sono infinitamente più sicure di quelle solo di pochi anni fa…
«Ma si può fare ancora meglio e di più. Un esempio? Rendere obbligatorie le luci di stop anche sui fari anteriori, per far capire subito al pedone se la vettura che gli viene incontro sta frenando oppure no. Un’idea che ho proposto da tempo ma che purtroppo non è mai stata realizzata…».
La domanda è inevitabile: a quale, tra le vetture che ha creato, è più affezionato?
«Era il 1960, avevo 22 anni e sognavo di guadagnare due soldi per comprarmi un paio di sci: disegnai per Bertone quella che avrebbero chiamato Alfa Romeo Sprint. Quando mi dissero che il mio progetto era stato approvato, ho rischiato di strozzarmi per l’emozione. La più bella in assoluto? Per non far torto a nessuna, ne cito una che non ho disegnato io: la Citroën DS 19. Nel 1955 era la creazione più incredibile che esistesse: nessuno è riuscito a imitarla».
E la sua automobile più brutta?
«Tutte quelle frutto di compromessi e imposizioni industriali. Tra quelle che ho disegnato io, devo per forza citare la Fiat Duna».
A proposito di Alfa Romeo: la Giulia è in ritardo, e il piano di Fca per il marchio è slittato al 2020…
«È un peccato vedere un brand importante andare avanti così, moscio moscio. Se lo avessero venduto a suo tempo, avremmo fatto cose stravolgenti. Non entro nel merito, ovviamente ci sono motivi finanziari, ma resto dispiaciuto».
Il nome di un creativo dell’auto che le piace e un marchio che secondo lei sta realizzando belle vetture?
«Dico Chris Bangle, anche se oggi fa altro. Il marchio? Mi piace Land Rover: stanno lavorando molto bene».
A 77 anni e dopo aver disegnato di tutto, c’è qualcosa che le piacerebbe ancora progettare?
«Ovviamente sì. Un carro armato. Non sono un guerrafondaio, ma il design militare mi affascina per ergonomia ed estetica. E perchè esprime il massimo della funzionalità».
Ma il vero sogno di Giorgetto Giugiaro forse è un altro…
«Ho sempre desiderato di realizzare qualcosa di impossibile. Come una tuta che consenta all’uomo di volare. Avevo un progetto, che è restato tale. Altri poi hanno inventato qualcosa di simile. Peccato».
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