L’Autunno che cambiò l’Italia

Con tutto quello che sta dentro l’ultimo mezzo secolo il ricordo delle giornate dell’autunno caldo del 1969 scivola inevitabilmente in quell’archivio della memoria che trasforma in preistoria avvenimenti di ieri già cancellati da quelli di oggi.

Non sorprende se un millennial ignori i fatti di corso Traiano che il 3 luglio di quell’anno annunciarono, senza preavviso, una stagione che sarebbe poi rimasta come un passaggio epocale, per alcuni aspetti la molla principale, della transizione dall’Italia contadina all’Italia industriale, dal miracolo economico alla contestazione.

Ma se si è stati testimoni perché a imporcelo è stato il mestiere di cronista allora è difficile restare indifferenti davanti alla ricca messe di fotografie con le quali Mauro Vallinotto ha fissato la Torino di quei mesi che cambiarono radicalmente il futuro di questa città e dell’Italia sulla scena di un teatro chiamato Fiat Mirafiori e dintorni.

Io ho avuto quel privilegio professionale e neppure per un istante ho pensato di sottrarmi all’idea, assieme al collega Ettore Boffano, di tenere assieme quelle tante immagini con un racconto che nella sintesi rispettasse l’essenzialità dei fatti. Il risultato è il libro “Torino ‘69” edito da Laterza. Ed è stato come il ripasso di un capitolo di storia che, rimosso dai più giovani, si ripropone in un’attualità sociale che sembra avere smarrito l’ansia e la passione di allora avendole derubricate a protesta e a disperazione.

Come in un film del neorealismo, accompagnate dalla narrazione, le immagini in rigoroso bianco e nero dell’autunno caldo -definizione coniata dall’anziano segretario del Psi Francesco De Martino- accorciano i tempi e rimandano a un mondo la cui ansia di cambiamento (Il sottotitolo è appunto “l’Autunno che cambiò l’Italia”) era senza precedenti.

Al centro la fabbrica con i primi scioperi articolati, i picchetti, i cortei, le assemblee, intorno la città che cresceva spesso senza controllo non prima di essere passata attraverso storie di emarginazioni che non di rado includevano sottili e meno sottili forme di razzismo nei confronti di un immigrato che arrivava dal Sud e doveva passare per un cammino della speranza non poi tanto diverso da quello portato sullo schermo da Pietro Germi. E poi gli arrivi di massa a Porta Nuova con le valige e le scatole di cartone legate con lo spago, la promiscuità di case dormitorio con i letti affittati a ore, la catena di montaggio come destinazione, un posto dove si lavora e non si protesta. Ma dove può accadere anche che l’ex bracciante scopra la politica o comunque si accorga un giorno che può migliorare la sua condizione e prova a misurarsi con questa impresa.

Ed eccolo lì l’autunno di cinquant’anni fa che comincia in fabbrica ma poi contagia il resto della società, non solo la scuola che già da un anno era in fermento con la rivolta studentesca. Gli striscioni dei cortei proclamavano “Vogliamo tutto e subito” e non si può certo dire che l’obiettivo sia stato raggiunto, ma non si può negare che si ottenne più di quanto si sarebbe immaginato all’inizio. In questo senso il libro di cui sto parlando racconta quello che è stato e quello che molti avrebbero voluto che fosse e non è stato. Quei giorni io li ricordo perfettamente: fatti, luoghi e anche i volti dei manifestanti ignoti e dei loro interlocutori, l’operaio massa come si diceva allora e i tavoli con Lama, Carniti, Benvenuto, Trentin, Macario e Carlo Donat Cattin e di fronte Agnelli e Pirelli e Angelo Costa.

Altri tempi? Certo, ma ricordarli fa bene e non solo per un vezzo snob di commemorazione.

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