Quando Alcide Paganelli portò la Fiat sulla Luna

L’Ospite di Autologia: Beppe Donazzan, giornalista.

Si trovò, improvvisamente, con il titolo italiano a portata di mano. Guidando una Fiat. La Lancia, da tempo, era la regina, gestita da un capo come Cesare Fiorio, preparato, scaltro, freddo come il ghiaccio. Fino ad allora aveva vinto tutto, agli altri erano rimaste soltanto le briciole. Ma in quell’estate del 1970, che volgeva al termine, Domenico Paganelli, così sulla carta d’identità, ma Alcide da sempre per tutti, capì che il dispiacere sarebbe riuscito a darglielo “a quelli là”. Lancia e Fiat, la rivalità era di quelle forti. Come fosse un derby, sempre. Eppure in Lancia c’era stato, là aveva iniziato dopo un breve apprendistato. Tutto in fretta, tutto rapidamente, con tanta voglia di emergere, ma sempre con correttezza e leggerezza.

Erano passati cinque anni da quando si era iscritto alla seconda edizione del rally di San Martino di Castrozza. Assieme all’amico Preti, con una Renault R8 Gordini 1150. Abitavano a Forlì, come tutti i romagnoli, i motori del sangue. Aveva fatto il liceo scientifico, Alcide. Ma, spirito libero, lasciò finita la quarta. Quella frenesia di libertà, di uscire di casa, di andare in fretta incontro al futuro, tutte situazioni proprie degli Anni Sessanta, lo proiettarono nel lavoro. Entrò in società con Vittorio, un amico. Presero in gestione una piccola concessionaria di automobili Renault. Vendere auto durante la settimana, traversi sulle strade delle colline attorno Castrocaro, il sabato notte. I rally erano in quell’orizzonte tra fantasia e realtà.

Ed è proprio in quel contesto che, a 23 anni, prese la decisione di andare fin lassù, tra le Dolomiti, con la Gordini blu Francia da poco acquistata. “È così che ci faremo pubblicità…”, commentò.

Partì con il numero 31 il 3 settembre 1965. Si scatenò l’inferno. Pioggia, frane, smottamenti, mai vista una cosa del genere, il rally venne bloccato. Ma le due prove speciali che si disputarono, furono sufficienti per mettere in evidenza le doti di Alcide. Settimo assoluto in classifica, dietro a piloti che di chilometri ne avevano percorsi a migliaia e che di macchine ne avevano consumate una cifra. Fu un esordio di emozione e di soddisfazione. Che non si ripetè l’anno seguente. Si ripresentò con la R8 Gordini, questa volta assieme a Mariella, navigatore più esperto rispetto a Preti.

Ciuffo alla James Dean, maglioncino sopra la tuta celeste Dunlop, Alcide protesse i fari con una spessa gommapiuma appiccicandola alla carrozzeria con del nastro adesivo giallo. Aveva già avuto a che fare con i sassi e le pietre delle prove speciali della San Martino. Una marea di problemi, si piazzò in 28ª posizione. Ma ormai la ruota della passione aveva incominciato a girare a pieno regime. Conobbe Mario Angiolini e lo status del pilota privato cambiò radicalmente. Il capo del Jolly Club, ancora una volta, intuì le potenzialità del giovane forlivese. Le tappe sì velocizzarono.

Dopo le R8 Gordini ecco aprirsi le porte della Lancia. Un inizio tormentato. Venne affiancato a Leo Cella nel rally di Montecarlo 1968. Come navigatore, per fare esperienza, gli dissero. Fece un errore, sbagliarono strada.

Non una cosa da poco, fare il navigatore, come ammise Leo, non era nel Dna di Alcide.

Fu un periodo amaro, difficile, rischiò di saltare.

Nel 1969, con una Fulvia Gruppo tre, partecipò a varie prove del campionato italiano e perfino alla 84 Ore del Nurburgring. In coppia con Amilcare Ballestrieri e Innes Ireland, Paganelli entrò in pieno in una gigantesca pozza d’acqua che si era formata sull’asfalto del vecchio circuito tedesco. L’HF 1600 volò come un sasso sullo stagno, fuoripista e finì in mezzo agli alberi della Foresta Nera.

Sincero, diretto, estroverso, senza peli sulla lingua, Alcide non entrò mai in sintonia con Cesare Fiorio. Quando a fine stagione gli arrivò la proposta della Fiat, che stava mettendo insieme la squadra ufficiale, non ci pensò un attimo per passare dall’altra parte.

Da quel momento iniziò la sua vera storia rallistica. E di Domenico Russo, detto Ninni, anch’egli di Forlì, classe 1939, trascinato nei rally non appena le gare, da semplice divertimento, erano passate ad essere anche prove di responsabilità. Alcide e Ninni si trovarono benissimo da subito. L’irruenza, la fantasia, il colpo di classe e di conseguenza la fragilità di Alcide, furono bilanciate dalla razionalità, meticolosità e dall’organizzazione mentale di Ninni.

Una coppia perfetta.

E proprio preparando la gara senza lasciare nulla al caso, che si avvicinarono a quell’appuntamento importantissimo. Per loro e per e la Fiat.

Tosto, il rally Alpe della Luna, seconda edizione. Il percorso l’aveva disegnato l’avvocato Luigi Stochino, l’organizzatore del San Martino di Castrozza, chiamato in Toscana dalla Comunità Montana Alto Tevere, per l’esperienza e per la professionalità. E l’avvocato veneziano andò a cercare le strade che piacevano a lui. Difficili, scassamacchine, come era nella sua mentalità. Ne uscì un rally durissimo, 1300 km, quattro giri di quelli da rendere dura la vita a tutti. Alcide e Ninni avevano provato e riprovato le prove speciali segnando in particolari modo i punti nei quali, la loro 124 Spider, poteva essere particolarmente sollecitata dal punto di vista meccanico. Ninni aveva poi suggerito le assistenze in funzione di questi punti interrogativi tecnici.

Dopo aver vinto il rally dell’isola d’Elba e aver conquistato il quarto posto al San Martino, Paganelli doveva assolutamente arrivare davanti a Sergio Barbasio, la volpe. Il genovese della Lancia correva assieme a Mario Mannucci. Era il più abile di tutti nello sfruttare i momenti delicati. I “cugini” si erano presentati in grandi forze alla prova decisiva: oltre a Barbasio, Fiorio schierò Ballestrieri-“Sartana”, altri non era che Daniele Audetto e Cristiano Rattazzi, in coppia con “Kilroy”, pseudonimo dietro il quale si celava Piero Sodano. Per tutta la gara, soprattutto nei controlli orari, quando toglieva il casco, il giovane navigatore di Savona, nascondeva parte del viso con un foulard colorato. Come nei film di Sergio Leone, quando i pistoleri srotolavano i fazzoletti legati attorno al collo. Ma per Piero i problemi erano con il capoufficio. Avesse saputo che chiedeva ferie di continuo per correre, sarebbero stati guai. Grossi. I rally erano una malattia, una passione, non ancora una professione. Come per tanti.

Le loro “armi” erano le HF 1600, affidabili, veloci, le macchine migliori.

Ninni Russo chiese ad Alcide di fare una gara d’attesa.

“Il ritmo ce lo daranno gli altri, poi vedremo…”. Alcide, come pilota, non era secondo a nessuno, aveva quel qualcosa in più che faceva la differenza. Anche se la macchina era inferiore. Lo si vedeva soprattutto sulla terra e nelle prove speciali in discesa. Anche Munari doveva sudare. Ed era l’idolo dei tifosi per la spettacolarità nella guida.

La 124 spider, con Alcide, era sempre di traverso, anche troppo. Di questa esuberanza agonistica Ninni aveva il timore. L’ing. Sguazzini, Maruffi e Gianfranco Silecchia piazzarono di copertura Montezemolo-Zanchetti e Trombotto-Macaluso con le 124 spider e poi due 125 S per Smania-Borsetto e Sonda-Manfrotto.

Alla partenza, alle 22,01, di venerdì 17 settembre 1970 – anche coloro che non erano superstiziosi si erano toccati – si presentarono 48 concorrenti.

Iniziò male per la Fiat.

Sulla prima prova speciale, a 5 km dal via, la velocissima Pieve Santo Stefano-passo dello Spino, classica di velocità in salita, Bepi Zanchetti chiamò un “due ++” una curva che, invece di allargare, chiudeva di brutto. La 124 di Montezemolo toccò le balle di paglia, si alzò e cappottò alcune volte. Indenne l’equipaggio, ma per la Fiat era meno uno. Una bella percentuale della causa dell’incidente stava nella rivalità che esisteva tra il giovane Montezemolo e l’amico fraterno Cristiano Rattazzi, figlio di Susanna Agnelli, questa volta alla guida di una HF ufficiale. E infatti fu proprio Rattazzi a prendere la testa della corsa con autorità. Come da copione Alcide e Ninni avevano iniziato calmi-calmi. Attenti a dove mettere le ruote, con traiettorie in sicurezza. Vicini al gruppo delle scatenate HF ma ancora con un margine da sfruttare. Sfortunati Barbasio e Mannucci: la loro Fulvia, improvvisamente, si bloccò senza un perché. Sergio e Mario si misero a controllare tutte le parti meccaniche e soprattutto elettriche. Non si accorsero che si era staccato il contatto nella presa della centralina. Una disdetta. Al controllo orario successivo arrivarono con sette minuti di ritardo. Al termine del primo giro Rattazzi-“Kilroy” guidavano la classifica, Alcide e Ninni secondi, terzo Ceccato, quarto Taufer con la Porsche 911S. Il colpo di scena sul finire della quarta tappa, quando sembrava che ormai tutto volgesse in favore di Rattazzi. Il cambio dell’HF, forse troppo sollecitato, si spaccò di colpo. Per Paganelli-Russo era fatta. Sul podio la tensione si allentava in sorrisi e in un abbraccio. Sergio Barbasio, indomabile, dopo quello stop, fece una corsa di grande rimonta e si piazzò al secondo posto. Per la matematica soltanto un miracolo, un grande risultato in un rally di campionato europeo, poteva ancora tenere accesa la speranza di riagguantare il duo della Fiat. Che non avveniva. Anzi per Alcide e Ninni si consolidò definitivamente con il secondo posto nel giro del Belgio.

Firmarono il primo grande trionfo della Fiat nei rally.

Se Munari era l’emblema della Lancia, Paganelli diventò quello della Fiat. Pilota di talento, spettacolare, simpatico, estroverso, incline alle pubbliche relazioni, era il personaggio giusto per la casa di Mirafiori. A due anni da quell’Alpe della Luna, ritrovò il successo nel secondo rally delle 4 Regioni. Con la 124 spider 1800, questa volta di forza, come piaceva a lui. Munari si ritirò presto, Barbasio, con Sodano, finì secondo.

Un regalo straordinario avvenuto dieci giorni prima di convolare a nozze, il 14 giugno 1972, con Paola Carello, la donna della sua vita. “Era al traguardo, bellissima, aspettava me…”.

Tante gare, qualche altra vittoria, troppi ritiri.

Poi la fine della favola con la Fiat nel 1975. La firma con l’Alfa Romeo, ma l’ingegner Chiti non realizzò mai la macchina. Quindi la voglia di correre all’estero. La nuova offerta della Fiat per correre in Sudafrica con la 131 Abarth. Portò giù tutta la famiglia, moglie e i due figli, Anna e Paolo. Ma anche mobili, quadri, tutto, un vero proprio trasferimento. Un giorno rientrò, vide le montagne e soprattutto ritrovò la nebbia, quel profumo tipico della pianura dove aveva sempre vissuto. La malinconia, tornò a casa. Ancora in Fiat, a girare il mondo con un incarico nelle relazioni esterne, giornalisti, al seguito di rally e presentazioni di nuove auto, dal 1977 al 1980. Quindi rieccolo nella veste di imprenditore, di golfista, sempre con il sorriso e la gioia di vivere. Alcide Paganelli, uno dei grandi. (Tratto dal mio volume  “Sotto il segno dei Rally 1” – Giorgio Nada Editore)

 

2 commenti
  1. Pier Paolo Prati
    Pier Paolo Prati dice:

    Che dire di Alcide e Ninni da un loro fratellino che li ha seguiti in tanti rally: ci siamo divertiti, erano dei grandi, ci mancano. Erano altri tempi, auto molto diverse ed impegnative, peccato che l’ Articolo abbia dimenticato di citare tanti altri grandi del mondo dei rally: Bisulli, Zanuccoli, Bacchelli, la Dodi Tominz, Verini, Scabinitutti piloti che resero grande lo squadrone rally Fiat.

  2. Vincenzo Bajardi
    Vincenzo dice:

    Alcide Paganelli, P.R in Fiat, stile a modo suo, originale, diretto, un campione di simpatia, un vero signore. Un personaggio da ??

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